martedì 9 agosto 2011

Paura della diagnosi

“Io ho paura della ‘diagnosi’!”

Gentile professor Masina, ho un figlio di sedici anni che da circa un anno crea problemi sia a casa che a scuola: è ribelle, indisciplinato, depresso oppure troppo9 su di giri. Di recente l’ho portato per una consultazione presso un Consultorio per adolescenti. Dopo averlo visto, due volte! gli specialisti hanno voluto incontrare me e mio marito. Speravo di avere delle spiegazioni sulla sofferenza di mio figlio e sui motivi che l’avevano prodotta. Nulla di tutto questo! L’unica cosa che siamo riusciti a capire, in mezzo a molti discorsi fumosi, è stata la diagnosi (“disturbo di personalità”) e la terapia prevista: colloqui psicologici più farmaci. Ora ci troviamo nella spiacevole situazione di dover collaborare a un progetto che non abbiamo capito a cosa debba servire. Perché i medici sono così sbrigativi? Perché usano etichette che a noi, persone comuni, non dicono niente e anzi, mettono paura? Scusi lo sfogo, Anna P,. Roma.

Risposta

Cara signora, lei tocca un argomento molto delicato e dibattuto tra noi “addetti ai lavori”. A due diversi livelli. Il primo riguarda il modo di comunicare con il paziente e/o i suoi genitori quello che abbiamo capito di lui, per motivarlo a seguire la terapia necessaria. Comunicare diagnosi (con relativa terminologia specialistica) non aiuta la comprensione da parte del/dei paziente/i ma può anzi, come nel vostro caso, fargli percepire un’eccessiva distanza dallo specialista, confonderlo/i o, addirittura, spaventarlo/i. Anche se, per onestà, bisogna dire che spesso sono proprio i pazienti a chiedere la diagnosi, nell’illusione che conoscere il nome di un problema sia conoscere il problema stesso, come scriveva lo psicoanalista Balint già cinquant’anni fa. E’ più grave quando la “scorciatoia comunicativa” della diagnosi viene applicata in campo psicologico. Infatti, mentre in medicina si parte dal sintomo riferito dal paziente per poi oggettivarlo sempre di più ricorrendo a visite, prove ed esami di laboratorio, nel nostro campo si fa esattamente il contrario: i sintomi, riferiti dal paziente e/o dai suoi familiari, devono essere sempre più soggettivati attraverso discorsi, fantasie, sogni, lapsus e qualunque altra manifestazione idonea a cogliere il mondo interiore del soggetto. Se si vuole capire qualcosa della sofferenza di quel determinato individuo, in altre parole, si deve passare dai “fatti” ai “vissuti”. Ne consegue che gli incontri “esplorativi” con il paziente - quelli, cioè, in cui lo psicoterapeuta interroga i vissuti di chi soffre anche attraverso l’ascolto attento dei propri - incluso l’incontro di “restituzione”, in cui lo specialista spiega al paziente quello che ha capito - sono delicati e importantissimi. Non si tratta solo di comunicare qualcosa e poi “chi si è visto si è visto”. Ma di cominciare a costruire con l’altro quella relazione d’aiuto che, se viene ritenuta valida e percorribile dal paziente, lo porterà ad intraprendere la terapia e a portarla avanti con spirito di collaborazione.
Il secondo livello che la sua lettera mi offre il pretesto di trattare riguarda l’eccessiva fiducia nella diagnosi da parte degli stessi psicoterapeuti. La diagnosi, infatti, descrive un problema, serve agli specialisti per presumere di parlare della stessa cosa, differenziandola dalle altre, ma, in realtà, descrive sintomi che sottendono un’infinita varietà di situazioni cliniche e vissuti individuali. Situazioni e vissuti che, per così dire, scaturiscono non dalla mente di un individuo isolato ma dalle relazioni che quest’ultimo ha stabilito e continua ad intrattenere con gli altri nel suo contesto di vita. Purtroppo, non di rado, gli psicoterapeuti piuttosto che raccogliere pazientemente nella relazione che si va costruendo con il paziente gli indicatori che consentono di “guardare attraverso” (è questo il significato del termine diagnosi, che deriva dal greco) il suo personale disagio in relazione al suo specifico contesto di vita pretendono di inserirlo in una categoria standard, cioè lo trattano come qualcosa di invariante, uguale per tutti. In questo caso la diagnosi è intesa ed usata nella sua accezione psichiatrica, volta a definire il disturbo mentale di cui è portatore il paziente ed esprime una visione individualistica dell’individuo. Lo psicoterapeuta, in altre parole, restringe il suo interesse all’individuo e al deficit (la psicopatologia) che lo contraddistingue, considerato come deviazione dai parametri che socialmente (culturalmente) definiscono la “normalità”. Lo psicoterapeuta siffatto sembra credere ad una drastica differenza fra normalità e patologia, ciò che già Freud più di cento anni fa, metteva in discussione. L’intento diagnostico, così concepito, non solo può prevalere sulla necessità di capire le relazioni fra il paziente e il suo contesto (genitori e fratelli, scuola, compagni e insegnanti, partner ecc.) ma rischia anche di impedire la comprensione della relazione del paziente con lo psicoterapeuta, che è una vera e propria cartina tornasole delle altre relazioni sopra elencate. Infatti, quando si fa diagnosi per identificare psicopatologie e misurare personalità si pensa che sia possibile conoscere il paziente (l’oggetto della conoscenza) attraverso categorie standard che sono, per così dire, indipendenti dalla relazione che si instaura fra lui e il soggetto che lo vuole conoscere (lo psicoterapeuta). Ma l’atto stesso di conoscere (le modalità usate, i presupposti, le stesse credenze del ricercatore) come tutti sanno, influenzano ciò che si vuole conoscere. Insomma, in psicologia clinica lo specialista non può conoscere alcunché se non passa attraverso la sperimentazione (e l’analisi) della relazione emozionata fra se stesso e la persona che è oggetto dell’ indagine.
Alcuni colleghi giustificano la diagnosi affermando che in questo modo si possono raccogliere dati quantitativi e utili per la ricerca, dati “scientifici” da spendere nei convegni ma a me questa pare un’idealizzazione della misurazione, che, come segnalavo, presenta molti inconvenienti, e una svalutazione di altre forme di conoscenza scientifica, ad esempio quella del resoconto che, dai tempi di Freud, gli psicoanalisti usano per discutere e sistematizzare le informazioni che vanno raccogliendo. Penso, piuttosto, che la “scorciatoia della diagnosi” continui a essere applicata perché permette sia allo specialista sia al paziente di non implicarsi profondamente nella relazione con se stessi e con l’altro. Il paziente delega i suoi problemi allo psicoterapeuta supposto sapere, lo psicoterapeuta accoglie la delega e si propone proprio come colui che sa a priori, senza bisogno di esplorare il campo della relazione.
Un’ultima considerazione: promuovere sviluppo piuttosto che correggere deficit, conoscere il modo di stare in relazione dell’individuo piuttosto che diagnosticare psicopatologie, è importante soprattutto nel caso degli adolescenti che attraversano fisiologicamente un momento di grande cambiamento. Un cambiamento che ha bisogno di essere capito “al volo”, accompagnato e sostenuto, piuttosto che fissato in rigide categorie di personalità. Purtroppo è proprio questo che talvolta passa il mercato della psicoterapia.
Cari saluti e auguri, Emilio Masina