venerdì 7 ottobre 2011

Il ritiro dalla scuola

Caro professor Masina, che si fa quando il proprio figlio di sedici anni, già bocciato una volta, non vuole più andare a scuola e passa il proprio tempo fra il letto, la televisione e il muretto con gli amici? Io le ho provate tutte: ho cercato di parlare con lui e di comprendere i motivi del suo rifiuto ma non sono approdata a niente. Anzi, ho ottenuto il risultato di farlo chiudere ancora di più in se stesso. Sono andata a parlare con gli insegnanti che si sono sfogati con me, confessando il loro disagio di lavorare in una classe molto numerosa e la difficoltà di offrire al mio ragazzo l’attenzione che sarebbe necessaria. L’anno scorso lo hanno promosso, nonostante il suo rendimento lasciasse molto a desiderare, per dargli un segnale di incoraggiamento, che però non è servito. Mio marito non mi aiuta, anzi! Si disinteressa dello studio del figlio, dichiarando che se non vuole andare a scuola lo manderà a lavorare, come se questa fosse una soluzione! Oppure interviene con durezza, tanto che più di una volta lui e mio figlio sono venuti alle mani, costringendomi a separarli. Forse potrei ritirarlo dalla scuola e proporgli di studiare da privatista, individuando professori competenti e più capaci di entrare in rapporto con lui. Lei che ne pensa? Grazie.
Lettera firmata



RISPOSTA

Gentile signora, mi pare che il ritiro dalla scuola non serva a risolvere il problema che lei illustra. Anzi, mi pare che rischi di essere un movimento collusivo con la decisione del ragazzo di semplificare la propria vita rinunciando a trattare la relazione con la scuola nelle sue molteplici sfaccettature (rapporto con i professori, con i compagni e con l’oggetto culturale, cioè i contenuti che vengono proposti per lo studio). Quando lavoriamo con adolescenti e giovani adulti gravemente disturbati ci accorgiamo spesso che vi è stata da parte della famiglia una lunga sottovalutazione dei loro problemi e che il momento in cui i ragazzi hanno cominciato a manifestare i loro problemi molte volte coincide proprio con il disinvestimento dello studio e delle relazioni con i compagni e con il ritiro dalla scuola. Il ritiro, cioè, ha rappresentato il tentativo di tacitare i problemi del figlio attraverso un evitamento e un ridimensionamento degli stessi, attribuendo al contesto scolastico tutta la responsabilità di quanto va accadendo. Non solo, dunque, si rinuncia ad usare la scuola come strumento potenziale di crescita, confronto e socializzazione. Ma anche individuando la famiglia come unico spazio in cui il ragazzo può vivere una vita serena la si carica di una responsabilità e di un carico enorme. Se in un primo momento pensare alla scuola come capro espiatorio può alleviare le tensioni interne al nucleo familiare, in un secondo momento proprio l’intimità coatta e l’impossibilità del ragazzo di usare interlocutori diversi dai propri familiari per rappresentare e cercare di trattare la propria sofferenza può portare, come lei sta già in qualche modo segnalando, ad un peggioramento della situazione.
Che fare, dunque? Io penso che la strada che lei ha già cercato di intraprendere, cioè quella del dialogo con il ragazzo, gli insegnanti e il marito sia quella giusta e non vada abbandonata di fronte alle prime difficoltà. E’ evidente che lo scoraggiamento (depressione?) del suo ragazzo viene alimentato dal senso di impotenza dei suoi insegnanti e dalla difficoltà che lei e suo marito fate per individuare una linea comune. Dobbiamo chiederci, però, se lo spazio comunicativo che lei ha aperto non rischia di diventare più uno spazio di lamento e di evacuazione delle proprie emozioni (lei si sfoga con le insegnanti e loro con lei, voi genitori vi sfogate con il figlio, suo marito con lei e così via). Se fosse così cercare di comunicare piuttosto che essere utile porterebbe rapidamente ad un sentimento di impotenza e alla messa in scacco di tutte le energie positive. Mi pare, cioè, che sia necessario che lei possa riflettere su cosa lei e i suoi interlocutori vi andate dicendo, in quali momenti, con quali modalità, in modo da rintracciare le emozioni e i significati sottesi alle parole che vengono scambiate. So che quello che le sto proponendo di fare è difficile ma solo imparando a non confondere l’intervento educativo con l’aggressione, la richiesta di aiuto con la pretesa, il sostegno con il controllo, cioè a riflettere costantemente sul senso delle relazioni che andiamo intrecciando con gli altri possiamo pensare di costruire legami affidabili piuttosto che essere in balia di una, magari involontaria, distruttività. In questo lavoro di decodifica e di alfabetizzazione emozionale forse uno psicologo potrebbe esserle utile.
Cari saluti e auguri, Emilio Masina