domenica 28 ottobre 2012

Attacco ai bambini



Ci sono immagini che segnano un’epoca perché riescono a dare corpo a un comune sentire rimasto inespresso. Proviamo la sensazione angosciosa che nel nostro Paese vi sia una crisi della funzione simbolica della legge e dell’autorità ed ecco che, dopo il faccione di Fiorito, incappiamo nel video sul prelievo forzato di un bambino a scuola per opera della Polizia di Stato.
Riassumo brevemente i fatti. Il giudice minorile dispone di togliere Lorenzo, dieci anni, figlio di genitori separati, alla potestà della madre e di portarlo in una comunità protetta per “riassestare e resettare i suoi rapporti affettivi in un ambiente consono al suo stile di vita”. Secondo lo psichiatra, consulente del Tribunale, la signora è responsabile di escludere l’ex marito dalla vita del bambino e di fare a quest’ultimo una sorta di lavaggio del cervello che lo spinge a vedere il padre come un alieno, cioè a soffrire di quella che viene chiamata in gergo tecnico Pas (Parental alienation Syndrome). Dopo due tentativi di prendere Lorenzo a casa, falliti perché lui, terrorizzato, si rifugia sotto il letto, polizia, assistenti sociali, psichiatra e padre del bambino vanno a scuola e, poiché Lorenzo si rifiuta di andare con loro, lo caricano di peso su una macchina. Vi è una colluttazione con il nonno e la zia materni che, armati di telecamera, da diverso tempo presidiano la scuola per opporsi a questo tipo di azioni. La signora urla: “Bastardi, i bambini non si portano via, vanno ascoltati! Ma chi siete voi? Quelli della Gestapo?”. Nel filmato si sente anche la voce di Lorenzo che chiede aiuto, mentre il padre lo tiene per i piedi, lo psichiatra per il braccio e un poliziotto per le spalle: “Aiutami, zia, non ce la faccio. Nonno, aiuto, non respiro!”.Una poliziotta, di fronte alle rimostranze della signora, afferma: “Non sono tenuta a parlarle. Io sono un ispettore di polizia, voi non siete niente!”. Nel clamore suscitato dalla vicenda ecco un campionario di dichiarazioni comparse sui giornali:“Sul bambino non ci sono lividi né ecchimosi” (psichiatra);. “Un provvedimento inevitabile, in cui l’esecuzione è sfuggita di mano” (magistrato); “L’operato dei miei uomini è stato cristallino: il ragazzino ha avuto una reazione violenta e il padre lo ha afferrato per i piedi, gli agenti sono intervenuti a sollevarlo da terra” (questore); “La forza è necessaria per liberare un bambino che è stato rapito” (padre). Gli stessi giornali hanno riportato che Lorenzo nella comunità per molti giorni ha tenuto addosso la stessa tuta che aveva a scuola, come se volesse fermare il tempo; e diversi commentatori hanno rilevato che bisognava interpellarlo, non forzarlo ad ubbidire: come se bastasse chiedere ad un bambino con chi vuole stare per risolvere una vicenda in cui i genitori lo strumentalizzano per avanzare le loro richieste.
Prima di riuscire a inquadrare razionalmente la triste vicenda, quel viluppo di corpi, quelle grida scomposte, ci comunicano l’impressione di un mondo impazzito, preda di emozioni violente. Un mondo incapace di pensare tensioni e conflitti ma solo di agirli in preda alla paranoia: un lucido delirio che porta a pensare che ogni male sia da attribuire sempre e solo agli altri. La paranoia, afferma lo psicoanalista Luigi Zoja, è’unico disturbo mentale dotato di autotropia, cioè di forza autonoma di moltiplicazione e di contagio. Accade così che il giudice, piuttosto che disporre l’approfondimento e la presa in carico delle cause del disagio familiare, preferisca rendere “orfano” il bambino di entrambi i genitori, collocandolo in una casa famiglia e sottraendogli tutte le sicurezze acquisite: la mamma, i nonni, la scuola, i compagni, lo sport. La parola “resettare”, evidentemente un lapsus freudiano, ci informa che il magistrato nel suo intimo non crede che le tensioni familiari possano essere affrontate, capite e risolte ma solo rimosse, come si fa con le informazioni di un computer, nell’illusione che si possa ricominciare daccapo. La stessa sfiducia sembra ispirare lo psichiatra che, invece di lavorare con il bambino e i genitori per esplorare e tentare di orientare il grave conflitto familiare, stigmatizza il comportamento della madre, ricorrendo alla diagnosi di Pas, un disturbo inesistente, al punto che l’Apa (American Psychiatric Association), ovvero l’associazione americana i cui membri sono specializzati in diagnosi, trattamento, prevenzione e ricerca di malattie mentali, lo ha escluso recentemente dal manuale diagnostico e statistico dei disturbi stessi (DSM 5). L’esimio consulente non si limita a utilizzare la scorciatoia della “malattia”; incapace com’è di fare ricorso a una competenza, ma si reca a scuola collaborando attivamente a traumatizzare il bambino e a ridurlo in uno stato, fisico e psicologico, di impotenza! E cosa dire dei rappresentanti della Polizia di Stato, a loro volta incapaci di cogliere l’inopportunità dell’uso della forza nel contesto delicato e fragile di una scuola elementare che, per di più, abusano del loro potere per ridurre al silenzio chi vi si oppone? Alla fine, ma potremmo dire all’inizio del circuito paranoico vediamo in azione un padre violento (accusato in precedenza dal figlio e dalla moglie di maltrattamenti) ma anche una famiglia militarizzata, quella materna, che fa la ronda attorno alla scuola di Lorenzo, ridotta ormai ad un campo di battaglia. La paranoia, infatti, non tollera il dubbio e i faticosi passaggi che la mente deve affrontare per esplorare e capire le cose difficili. Come molte guerre hanno dimostrato, precedere l’attacco del “nemico” significa evitare la morte somministrandola all’avversario. Penso che tutti noi ci siamo identificati con Lorenzo, con la sua fragilità di vaso di coccio fra i vasi di ferro. Abbiamo invocato il ritorno della ragione, una formazione psicologica per giudici, forze di polizia e anche per i consulenti incompetenti, incapaci di lavorare nelle e con le relazioni dei loro clienti; consulenti che oggettivano gli umani disagi come se fossero microbi da sconfiggere con gli antibiotici. Abbiamo pensato alle carenze della scuola e dell’università che, sempre più abbandonate a loro stesse, senza fondi e risorse, devono affrontare il predominio della logica mercantile ed economicistica, ispirata da un sempre meno velato darwinismo sociale. Ci sono venute in mente le tante famiglie in difficoltà, che rimangono isolate in un tessuto sociale sempre più disgregato. E i Tribunali, cui sempre più genitori ricorrono, nell’illusione che delegare il potere decisionale ad un terzo risparmi loro la fatica e il dolore di capire, e di ovviare, ai propri errori.  
Emilio Masina

domenica 21 ottobre 2012

Giacomo e il difficile incrocio tra Medicina e Psicologia (terza e ultima parte)

Mario aveva fatto una smorfia amara perché, parlando con Alfonso e Dorina, si era ricordato della fatica che aveva fatto lui per trovare uno psicoterapeuta competente. Prima di tutto aveva dovuto fare i conti con la sua incerta motivazione a farsi seguire da qualcuno che non fosse lui stesso. Era, all’epoca, un giovane chiuso e isolato, senza amici e incapace di trovare una donna, segnato dalla tristezza. Tuttavia, aveva una mente brillante – si era laureato in matematica con il massimo dei voti – e il suo interesse per la psicologia era, almeno così gli sembrava, puramente intellettuale. Insomma, Mario aveva delle inquietudini ma cercava, come tanti giovani adulti, di curarsi da sé. Insieme con alcuni libri in cui venivano accostati modelli matematici e psicologici, che aveva letteralmente divorato, aveva trovato una quantità di altre pubblicazioni, alcune paludate, altre molto più leggere. Era un lettore onnivoro che si buttava persino sulle riviste trovate dal barbiere, cercando, insieme agli ultimi pettegolezzi sui fidanzamenti e le separazioni delle coppie famose, la posta del cuore che leggeva con avidità immedesimandosi nei personaggi e nelle situazioni che venivano descritte. Nonostante questa bulimia letteraria gli avesse più volte generato una sensazione di nausea e di rigetto era riuscito a capire alcune profonde verità: 1) Vi era una certa vicinanza e contiguità tra scienze psicologiche e senso comune (alcuni discorsi degli psicologi si avvicinavano molto ai consigli di sua nonna!); 2) Questa vicinanza, se da un lato andava a scapito della serietà scientifica della psicologia, dall’altro lato ne amplificava enormemente l’importanza nella società. Leggendo tutto quel materiale a Mario sembrava che le aspettative nei confronti della psicologia fossero molto elevate e riguardassero ogni campo dell’esistenza umana. La genericità di queste aspettative (disagio, conflitti, eventi traumatici, malfunzionamento, ecc.) rendeva difficile ai potenziali clienti formulare delle domande di aiuto imperniate su obiettivi circoscritti utilizzabili come standard per valutare la prestazione professionale dello psicoterapeuta; 3) In una collusione con la genericità delle domande anche il sistema professionale degli psicologi offriva una serie di risposte che a lui sembravano poco convincenti: il nesso tra l’azione dello psicologo e il risultato promesso non era chiaro. O almeno, non altrettanto chiaro come quello del medico che si propone di arrivare alla guarigione, ad esempio eliminando dall’organismo malato il batterio responsabile. Vi era, insomma, una sorta di debolezza concettuale sia nell’offerta che nella domanda di prestazione psicologica e gli stessi interventi dello psicologo venivano valutati non in base all’azione di modelli specifici ma piuttosto in base al comune sentire.
Eppure, tutto questo ragionare di psicologia e di cure aveva fatto venire a Mario una gran voglia di discuterne con qualcuno. Continuando a prendere la questione della sua sofferenza alla larga, si era mosso sul web scoprendo che esistevano una serie di società di psicoterapeuti accreditate dal Ministero della ricerca scientifica. Però, la vastità dell’offerta lo aveva lasciato sconcertato: a chi rivolgersi in tanta abbondanza? Navigando aveva scoperto che uno psicologo su tre in Europa e uno su dieci nel Mondo era italiano: “Possibile che tutti gli italiani, oltre a voler scrivere un libro, vogliano diventare psicologi?” si era chiesto. Mario voleva anche sapere, dato che le sue risorse economiche erano limitate, quanto costasse una terapia ma le informazioni sul sito dell’Ordine Nazionale degli Psicologi non lo avevano granché aiutato: la fascia degli onorari per una seduta individuale era molto ampia - si andava dai 35 ai 115 euro. Sul sito si diceva che per la determinazione dell’onorario il professionista doveva tenere conto della situazione sociale e della condizione economica del cliente ma anche dell’urgenza e della complessità della prestazione richiesta. Tanto è vero che per le prestazioni professionali di eccezionale complessità gli onorari potevano essere aumentati sino al 30%. Ma chi decideva cosa era eccezionalmente complesso? Il cliente aveva voce in capitolo? Altri siti parlavano, più allusivamente, di una psicoterapia che sarebbe costata come una macchina di media cilindrata. “Forse ce la posso fare!” aveva pensato Mario, che da poco aveva cominciato a lavorare come insegnante. Ma poi si era imbattuto nei siti di quei professionisti che Freud - ma questo Mario non lo sapeva - avrebbe chiamato “selvaggi”: medici, psicologi e/o psicoterapeuti con scarsa competenza che promettevano mirabolanti cambiamenti, magari con l’ausilio di video raffinati in cui la telecamera oscillava tra il loro viso ispirato (o spiritato?) e il lettino (più poltrona) usato dagli psicoanalisti patentati. Si era spaventato moltissimo e per un bel po’ aveva soprasseduto. Con il senno di poi riconosceva di essere stato molto diffidente e che il suo modo sospettoso di ragionare faceva parte della sua “malattia”. Però riconosceva in se stesso anche una componente di sana cautela: voleva capire bene a chi avrebbe dovuto affidarsi prima di fare un passo che sentiva impegnativo e importante per il suo futuro.
Solo dopo molti ripensamenti Mario si era fatto coraggio e aveva cominciato a chiedere informazioni ai suoi conoscenti. Attraverso il passaparola e le buone referenze di ex-pazienti era arrivato a selezionare, fra i tanti strizzacervelli una rosa di tre nomi. Non restava che mettersi in gioco e prendere un appuntamento.
Il primo incontro si risolse in un sonoro fiasco: il dottore che lo ricevette era affabile ma parlava come una macchinetta, riempiendolo di domande. “Per fare un’anamnesi” si era giustificato ad un certo punto, rendendosi conto lui stesso, dalla ritrosia del cliente, che qualcosa non andava. E poi, quando Mario, timidamente aveva accennato ai suoi problemi con la moglie, gli aveva detto, ammiccando, che comprendeva: “Fra uomini possiamo condividere i problemi che ci danno le donne!”. Così, Mario lo aveva salutato e, nonostante l’insistenza del dottore per fissare un altro appuntamento, non si era più fatto vivo. La seconda volta fu più difficile: la dottoressa era più calma e sembrava disposta ad ascoltare. Era solo un po’ troppo gentile e sorridente e aveva una gonna piuttosto corta che, quando accavallava le gambe, induceva Mario a distrarsi dal filo dei suoi pensieri. La psicologa aveva fatto qualche commento sensato sulla sua situazione e alla fine del colloquio gli aveva detto che quel primo appuntamento era gratuito. Ci sarebbe stato tempo poi, se decideva di avviare un lavoro con lei, per pagare l’onorario. Mario era tornato, anche se non era del tutto convinto. Aveva deciso di darsi, di darle un’altra chance. Nel secondo incontro, aiutato dall’espressione seria e comprensiva della dottoressa, si era lasciato più andare e aveva raccontato, piangendo, un’episodio molto doloroso della propria infanzia. Ma proprio sul più bello, proprio quando gli pareva che il peso che aveva portato dentro per tanti anni potesse essere finalmente condiviso con qualcuno, la dottoressa si era alzata per andare a prendergli i fazzolettini nell’altra stanza. In un lampo di dolorosa consapevolezza Mario aveva capito che la psicologa non riusciva a tollerare la sofferenza che lui stava esprimendo e aveva dovuto interrompere il contatto. Per non avere rimorsi, era riuscito a pagare l’onorario ma non ad avere la ricevuta – “Purtroppo noi professionisti siamo gravati da un’elevata pressione fiscale e dobbiamo difenderci”, aveva detto lei. Mario era uscito irritato per il tempo e le energie sprecate: “Questi stanno peggio di noi!” si era detto, cercando di far evaporare la rabbia .
“E poi che cosa è successo?” chiese Alfonso. Mario non si era quasi reso conto di aver raccontato ai suoi amici il suo percorso di avvicinamento alla psicoterapia. “Ho trovato quello giusto” – rispose, allentando la stretta della mascella in un sorriso. “Sai, Alfonso, ho capito attraverso le mie esperienze che molte volte noi clienti ci accontentiamo troppo facilmente di chi ci viene presentato. E’ come se non volessimo fare fatica e non vedessimo l’ora di delegare a qualcuno, non importa chi, la soluzione dei nostri problemi. Cerchiamo di essere pazienti, piuttosto che clienti. Insomma – concluse Mario - si potrebbe dire che ciascuno ha il terapeuta che si merita!”.
Si era fatto tardi e Mario tornò a casa. Dorina e Alfonso scambiarono qualche opinione sulla serata: “E’ stato interessante”, disse Alfonso. “Ma anche molto duro”, esclamò Dorina. “Ci ha fatto capire che dobbiamo essere attivi nella ricerca di aiuto”, disse Alfonso. “E anche che possiamo essere in difficoltà ma non senza risorse”, aggiunse Dorina. Chiamarono Giacomo nel solito tentativo di capire dove fosse finito ma quando si accorsero che il cellulare era spento non reagirono con rabbia, come le altre volte. Anzi, andarono a letto abbracciati. “Domani è un altro giorno”, disse Dorina, prima di spegnere la luce.