domenica 30 settembre 2012

Giacomo e il difficile incrocio fra medicina e psicologia (Parte seconda)


La famiglia era impreparata. Avevano sempre gestito le loro emozioni in modo impulsivo, cioè sfogandole attraverso l’azione. Eruzioni gassose, bolle che, una volta scoppiate, consentivano di tornare a un precario equilibrio. “Pensare troppo fa male”, ripeteva spesso Dorina, la madre di Giacomo. “Pippe mentali”, rincarava Alfonso, il padre. Così, quando la scuola ipotizzò che il ragazzo avesse dei problemi psicologici e loro dovettero, controvoglia, affacciarsi sull’incrocio fra Medicina e Psicologia rimasero paralizzati dallo stupore. A loro, per essere precisi, non sembrava ancora un incrocio ma piuttosto, come spiegarono anni dopo ad alcuni conoscenti, un vortice che li aveva scalzati dalla loro vita ordinaria, forse un po’ banale ma prevedibile, e gettati dentro un baratro incommensurabile. Nel buco nero una serie di luci fioche illuminavano a stento un intrico di strade, sentieri e sentierini, simile a un labirinto o alla tela di un ragno. All’imbocco si potevano scorgere targhe con nomi alcune volte comprensibili, altre volte astrusi: Dipartimento di Salute Mentale, Istituto di Neuropsichiatria Infantile, Servizio di Neuropsicologia, Ambulatorio contro le Dipendenze, Comunità Terapeutica, Sert.
I genitori di Giacomo erano diplomati ma mai avrebbero pensato di doversi confrontare con una tale complessità e più il buco li assorbiva più l’esercito di targhe e di specialisti si moltiplicava. Conobbero omeopati e medici di base, psichiatri e psicoterapeuti di diverso orientamento, educatori e assistenti sociali, rubriche televisive e siti di consultazione on line. Furono assaliti da un nugolo di amici di famiglia pronti a mettere a disposizione le loro esperienze di vita, sacerdoti volenterosi, insegnanti-improvvisatisi psicologi. Rifiutarono solo di conoscere i maghi che, attraverso il passaparola, garantivano guarigioni miracolose: “Siamo ignoranti ma non stupidi”, diceva Dorina; “Ignoranti ma non creduloni”, rincarava Alfonso. Il fatto è che Giacomo non voleva saperne di nulla: continuava a far disperare i genitori uscendo di casa e facendo perdere le sue tracce; saltava la scuola, fumava erba e forse, le prove non erano determinanti, anche qualche droga pesante; ma, soprattutto, continuava a rubare in casa nonostante i genitori facessero il possibile per sorvegliare borse e portafogli, chiudessero a chiave le porte, nascondessero gli oggetti preziosi. Bastava un attimo di disattenzione e zac! qualcosa spariva. Ogni tanto il figlio accettava di vedere uno specialista ma durava uno o due incontri. Poi saltava l’appuntamento successivo, dicendo che non aveva bisogno di niente, che dovevano dargli un po’ di soldi e lasciarlo in pace, che a curarsi dovevano essere loro. E bisognava ricominciare. Loro le avevano provate tutte: con le buone e con le cattive. L’ultima volta che il ragazzo l’aveva pesantemente apostrofato il padre gli aveva mollato un manrovescio, con l’unico risultato di far peggiorare la situazione. Giacomo, bestemmiando, l’aveva spinto con forza contro un armadio, facendogli perdere l’equilibrio e solo il provvidenziale intervento di Dorina, che si era messa, tra i due, aveva evitato il peggio.
A cercare aiuto erano rimasti i genitori ma, più procedevano, più si confondevano. Qualche esperto li spaventava dicendo che il ragazzo era sull’orlo della malattia mentale e bisognava correre ai ripari con un cocktail mirato di farmaci, magari messi di nascosto nella minestra . Chi, al contrario, li rassicurava: quelle di Giacomo erano solo ragazzate, fisiologiche irruzioni di disordinata vitalità caratteristiche della sua età: bastava avere pazienza e si sarebbero risolte da sole. Altri proponevano cambiamenti di scuola, punizioni esemplari o l’invio del ragazzo in un collegio svizzero dove lo avrebbero rieducato al rispetto delle regole. Ma l’uso delle sostanze era, secondo altri esperti, la prova evidente di un necessario e improcrastinabile ricovero in una comunità per tossicodipendenti. Il medico di famiglia e un cugino neurologo invece, suggerivano, più prosaicamente, di sottoporre Giacomo ad una TAC, per vedere se l’incidente in motorino avesse causato danni cerebrali responsabili dei suoi cambiamenti di carattere.
Alla domanda che, ansiosamente, rivolgevano a tutti: “Mi dica, dottore, che cosa ha?”, qualche specialista rispondeva con diagnosi dai nomi difficili, anche solo da ricordare: “sindrome borderline”, “psicopatia”, “disturbo di personalità”. Altri, invece, facevano discorsi lunghi e dotti ma sembravano dire, o almeno così capivano loro: “Il ragazzo ha un pò di questo, un pò di quello e un pò di quest’altro”. “Pippe mentali” diceva spesso, all’uscita, Alfonso, più impaziente della moglie. “Male non farà!”, rispondeva Dorina, cui tutto quel parlare aveva risvegliato qualche antico interesse. Però la situazione era in stallo, il buio non si rischiarava, anzi, era sempre più pesto e la coppia era confusa. La categoria degli esperti era quanto mai varia e disomogenea. Vennero ricevuti da una strizzacervelli e dal suo cane (lei interruppe l’incontro per dargli da mangiare), da algidi professionisti in camice e sigaro acceso, e una volta Dorina, che si era presentata sola, perché il marito aveva la febbre, ricevette le attenzioni di un  esperto che, vedendola molto in ansia, le propose di stendersi sul lettino per farle un massaggio rigeneratore. Insomma, si sentivano come su una giostra: qualcuno li faceva pagare profumatamente e nei quindici minuti del colloquio sembrava del tutto assente e disinteressato; qualcun altro aveva onorari ridotti, oppure offriva una consulenza gratuita; ci fu pure chi, trasportato dalla sua eccezionale capacità empatica, si mise a piangere con loro.
Il fatto è che Dorina e Alfonso, ispirati dal sano desiderio di capire qualcosa della sofferenza del figlio, avevano sentito inizialmente un paio di specialisti. Ma poi la diffidenza era cresciuta, probabilmente sostenuta dalle resistenze ad affrontare veramente i problemi. Così, resistenze e pareri affrettati e incongrui tra loro avevano creato una sorta di circolo vizioso: più cresceva la prima, più si moltiplicavano le consultazioni; più queste ultime si rivelavano inutili, più montava la diffidenza.
Stavano ormai per desistere e programmare un viaggio a Lourdes (una vicina di casa asseriva che così aveva risolto i problemi con il figlio) quando venne a trovarli il cugino Mario, un solido signore di mezza età con la passione per la psicologia, che aveva assecondato facendo una lunga psicoanalisi personale. “Vedete - spiegò loro Mario, per nulla sorpreso dalle loro vicissitudini – il vostro problema si trova in un’area all’incrocio fra la Medicina e la Psicologia, due discipline che vengono spesso assimilate ma che, in realtà, sono profondamente diverse. La Medicina parte dai sintomi riferiti soggettivamente dal paziente per procedere poi con prove ed esami sempre più accurati tesi ad oggettivare via via la situazione e a fornire una diagnosi eziopatogenetica”. “Ezioche?”, domandò Alfonso. “Vuol dire che il medico individua e classifica la malattia e ipotizza, per procedere poi alla cura, le cause che l’hanno determinata. E guai se non facesse così! La psicologia, invece, si muove in direzione opposta, cerca di soggettivare sempre di più i sintomi del soggetto sofferente per capire che cosa c’è dietro. Il vero problema non sono i sintomi riferiti, pensano gli psicologi, almeno una parte di loro - spiegò Mario, che intanto sorrideva, pensando, fra sé e sé, che in Italia erano state censite ben 379 scuole di psicoterapia e che molte di loro scimmiottavano la disciplina medica - ma la sofferenza che li ha determinati. Tacitare i sintomi, seguendo il legittimo desiderio di chi soffre e di chi gli sta intorno, significa, in psicologia, privarsi degli indicatori utili a comprendere il disagio del paziente e a curarlo. I farmaci, oppure l’intervento suggestivo e rassicurante dello specialista possono anche, lì per lì, farli sparire. Ma i sintomi, prima o poi, probabilmente si ripresenteranno, magari sotto altra forma e con forza e intensità maggiore”. Alfonso e Dorina ascoltavano Mario a bocca aperta. “Ma allora, ecco perché il dottor Rossi ci faceva parlare tanto e il dottor Bianchi così poco!” esclamò Mario, che finalmente cominciava a capire qualcosa.
“Sì, per lo psicoterapeuta la sofferenza è sempre legata al contesto affettivo dell’individuo e quindi alle sue relazioni. Per capirne qualcosa deve esplorare queste ultime, inclusa la relazione che si viene a creare fra il terapeuta e i suoi clienti/pazienti - continuò Mario- per lo specialista di formazione medica, invece, parlare troppo è fonte di disturbo e di confusione. Lo psicoterapeuta si coinvolge affettivamente e sa che l’atto stesso di entrare in rapporto modifica quello che viene osservato; il medico, al contrario, si tiene distante perché, come dice il proverbio ‘il medico pietoso fa la piaga cancrenosa!’. Per il medico, ma anche per certi “psi” che al medico cercano di assomigliare, il disturbo è tutto interno all’individuo e il terapeuta-osservatore non fa che esplorarlo e metterlo allo scoperto”. “Ma così, curarsi, orientarsi, diventa una vera impresa!” - esclamò Dorina . Mario annuì, questa volta con un sorriso amaro.

Emilio Masina

martedì 25 settembre 2012

Giacomo e il difficile incrocio tra la medicina e la psicologia (parte prima)



A Giacomo avevano sempre detto che era un bambino speciale: . irrequieto ma curioso, poco disciplinato ma forte nel gioco del pallone, provocatorio ma anche tenero e affettuoso. Quando dormiva con mamma, oppure con papà, perché i genitori si erano separati appena dopo la sua nascita, li abbracciava forte per consolarli di tutti i loro guai. In quei momenti loro lo perdonavano per ciò che aveva combinato durante la giornata e lo vezzeggiavano dicendogli che era sensibile e intuitivo: insomma un ometto. In quarta elementare, per vendicarsi di un brutto voto, aveva preso a calci l’insegnante ma i genitori gli avevano cambiato classe perché lei non lo capiva. In seconda media era stato sospeso perché trovato a tirare gavettoni sui passanti dalle finestre della scuola e anche quella volta era stato trasferito in un istituto meno repressivo. Ma allora perché, ora che aveva sedici anni, Giacomo si sentiva così teso, così poco capito? Perché i genitori avevano cominciato a dare così importanza ai suoi insuccessi scolastici, ai suoi giri in motorino per la città, a quell’incidente che era capitato, certo non per colpa sua, e che lo aveva costretto per due mesi alle stampelle? Non gli avevano fatto aggiustare “il motore” e avevano ridotto la paghetta a percentuali da fame; proprio a lui che veniva da una delle famiglie meno benestanti e abitando in quartiere di ricchi già faceva fatica a tenere i confronti! Anche il rapporto con i suoi amici si stava modificando. Era sempre un capetto, capace di far ridere tutti con le sue gag durante le lezioni. Affrontava i professori senza paura né pudore, come se fossero una mamma o un papà un po’ più seriosi, che di fronte alle interruzioni protestavano ma, sotto sotto, erano contenti che la loro giornata si rivelasse meno noiosa del solito e grati per quell’irruzione di vitalità a buon mercato.  Giacomo sapeva parlare, inventare storie, imitare i politici. Aveva imparato a essere imprevedibile, a fare il contrario di quello che ci si aspettava da lui. “Botta di classe”, diceva. Però la sua corte si andava progressivamente riducendo: le femmine erano sempre meno e per una che si faceva toccare ce n’erano due che gli dicevano di finirla con i giochetti. E anche per il petting, ormai, doveva ricorrere sempre più spesso all’aiuto dell’alcool o dell’erba. Per darsi coraggio, si raccontava, gli raccontava, che non sapeva fare a botte ma si era fatto la fama di uno che per uno sgarro era disposto ad uccidere. Di maschi ne aveva sempre intorno, ma i più sfigati, quelli che, come lui, erano già stati bocciati e ora vivacchiavano nelle scuole private per deficienti danarosi. Quelli che “farò due anni, anzi tre, in uno, e dimostrerò a tutti quello che valgo”. Dopo i diciotto anni, si dicevano, la nostra vita cambierà. Fino ad allora dobbiamo provare tutto, fare esperienza. Si chiamavano fratelli ma Giacomo aveva avuto più di un’occasione per scoprire che non era vero: una volta, ad una festa, era sparito un orologio e uno dei suoi più cari amici aveva accusato lui, che non c’entrava niente. Infame. Il mondo si stava capovolgendo! Giacomo non credeva più a se stesso, non credeva più negli altri. Si sentiva spesso triste, senza una ragione, sentiva un vuoto dentro la testa e immediatamente dopo, o subito prima, un affastellarsi di pensieri che non riusciva a identificare bene. La notte dormiva male e gli faceva paura addormentarsi, perdere il controllo. Cercava di tirare fino a tardi per rimandare il sonno ma quando ormai pensava di avercela fatta a resistere, improvvisamente crollava. Non c’erano sogni ma incubi, indecifrabili come i pensieri della veglia.
Un giorno, girovagando per il quartiere, si trovò di fronte alla sala scommesse. Sulla porta c’era un suo conoscente: “Bella, fraté! Come butta?”. Entrarono insieme e quello cominciò a spiegargli come si puntava: bastava poco e si poteva guadagnare molto. Ma quel fratello lucignolo non lo avvisò che c’era un trucco. I gestori, violando la legge, che vietava il gioco d’azzardo ai minori di diciotto anni, facevano puntare tutti. E, all’inizio, ti facevano vincere. Così tu ti gasavi e insistevi. Poi, alla seconda o alla terza settimana, cominciavi a perdere ma “quelli” erano benevoli e ti facevano credito. Fino a quando il debito accumulato diventava cospicuo e allora cominciavano le richieste di resituzione: prima blande, poi più decise, fino ad arrivare all’allusione che se tu non avessi obbedito ci sarebbero state gravi conseguenze. Dopo due mesi Giacomo raggiunse un debito di duemila euro ma ancora non mollava, anzi, si raccontava di azzeccarle tutte perché ogni tanto, con un aiutino clandestino del gestore, recuperava improvvisamente qualche centone: “Sono magico, telepatico, gli altri mi chiedono consigli su come giocare!” pensava, perché ormai faceva da capocordata ad altri polli entrati dopo di lui. Ma quando il suo conoscente gli spiegò che “quelli” facevano sul serio e che più di un ragazzo ci era andato per le piste perché lo avevano aspettato sotto casa e riempito di botte, cominciò a spaventarsi. Non disse niente ai genitori ma l’argenteria di casa si volatilizzò. Negò, spergiurò che non era stato lui ma i genitori non ci credettero: li aveva colpiti il fatto che Giacomo, il loro figlio adorato, avesse rubato oggetti che avevano un valore economico ma, soprattutto, un grande valore affettivo: le posate ereditate dalla nonna, l’orologio del nonno. Si scatenò un putiferio perché i genitori cominicarono a incolparsi l’un l’altro di aver sbagliato l’educazione del figlio. La situazione peggiorò, fino a quando, in seguito ad una bravata di Giacomo che era salito sull’alto muro di cinta della scuola minacciando di buttarsi giù, il ragazzo e la sua famiglia si trovarono, quasi senza saperlo e senza volerlo, all’ incrocio fra la medicina e la psicologia: un incrocio difficile, dove ogni passo, se non viene pensato con cura, risulta fatale. (Fine prima parte).

Emilio Masina