La famiglia era
impreparata. Avevano sempre gestito le loro emozioni in modo impulsivo, cioè
sfogandole attraverso l’azione. Eruzioni gassose, bolle che, una volta
scoppiate, consentivano di tornare a un precario equilibrio. “Pensare troppo fa
male”, ripeteva spesso Dorina, la madre di Giacomo. “Pippe mentali”, rincarava
Alfonso, il padre. Così, quando la scuola ipotizzò che il ragazzo avesse dei
problemi psicologici e loro dovettero, controvoglia, affacciarsi sull’incrocio
fra Medicina e Psicologia rimasero paralizzati dallo stupore. A loro, per
essere precisi, non sembrava ancora un incrocio ma piuttosto, come spiegarono
anni dopo ad alcuni conoscenti, un vortice che li aveva scalzati dalla loro
vita ordinaria, forse un po’ banale ma prevedibile, e gettati dentro un baratro
incommensurabile. Nel buco nero una serie di luci fioche illuminavano a stento
un intrico di strade, sentieri e sentierini, simile a un labirinto o alla tela
di un ragno. All’imbocco si potevano scorgere targhe con nomi alcune volte comprensibili,
altre volte astrusi: Dipartimento di Salute Mentale, Istituto di
Neuropsichiatria Infantile, Servizio di Neuropsicologia, Ambulatorio contro le
Dipendenze, Comunità Terapeutica, Sert.
I genitori di Giacomo
erano diplomati ma mai avrebbero pensato di doversi confrontare con una tale
complessità e più il buco li assorbiva più l’esercito di targhe e di
specialisti si moltiplicava. Conobbero omeopati e medici di base, psichiatri e
psicoterapeuti di diverso orientamento, educatori e assistenti sociali,
rubriche televisive e siti di consultazione on line. Furono assaliti da un
nugolo di amici di famiglia pronti a mettere a disposizione le loro esperienze
di vita, sacerdoti volenterosi, insegnanti-improvvisatisi psicologi.
Rifiutarono solo di conoscere i maghi che, attraverso il passaparola,
garantivano guarigioni miracolose: “Siamo ignoranti ma non stupidi”, diceva
Dorina; “Ignoranti ma non creduloni”, rincarava Alfonso. Il fatto è che Giacomo
non voleva saperne di nulla: continuava a far disperare i genitori uscendo di
casa e facendo perdere le sue tracce; saltava la scuola, fumava erba e forse,
le prove non erano determinanti, anche qualche droga pesante; ma, soprattutto,
continuava a rubare in casa nonostante i genitori facessero il possibile per sorvegliare
borse e portafogli, chiudessero a chiave le porte, nascondessero gli oggetti
preziosi. Bastava un attimo di disattenzione e zac! qualcosa spariva. Ogni
tanto il figlio accettava di vedere uno specialista ma durava uno o due
incontri. Poi saltava l’appuntamento successivo, dicendo che non aveva bisogno
di niente, che dovevano dargli un po’ di soldi e lasciarlo in pace, che a
curarsi dovevano essere loro. E bisognava ricominciare. Loro le avevano provate
tutte: con le buone e con le cattive. L’ultima volta che il ragazzo l’aveva
pesantemente apostrofato il padre gli aveva mollato un manrovescio, con l’unico
risultato di far peggiorare la situazione. Giacomo, bestemmiando, l’aveva
spinto con forza contro un armadio, facendogli perdere l’equilibrio e solo il
provvidenziale intervento di Dorina, che si era messa, tra i due, aveva evitato
il peggio.
A cercare aiuto erano
rimasti i genitori ma, più procedevano, più si confondevano. Qualche esperto li
spaventava dicendo che il ragazzo era sull’orlo della malattia mentale e
bisognava correre ai ripari con un cocktail mirato di farmaci, magari messi di
nascosto nella minestra . Chi, al contrario, li rassicurava: quelle di Giacomo
erano solo ragazzate, fisiologiche irruzioni di disordinata vitalità
caratteristiche della sua età: bastava avere pazienza e si sarebbero risolte da
sole. Altri proponevano cambiamenti di scuola, punizioni esemplari o l’invio
del ragazzo in un collegio svizzero dove lo avrebbero rieducato al rispetto
delle regole. Ma l’uso delle sostanze era, secondo altri esperti, la prova
evidente di un necessario e improcrastinabile ricovero in una comunità per
tossicodipendenti. Il medico di famiglia e un cugino neurologo invece,
suggerivano, più prosaicamente, di sottoporre Giacomo ad una TAC, per vedere se
l’incidente in motorino avesse causato danni cerebrali responsabili dei suoi
cambiamenti di carattere.
Alla domanda che,
ansiosamente, rivolgevano a tutti: “Mi dica, dottore, che cosa ha?”, qualche
specialista rispondeva con diagnosi dai nomi difficili, anche solo da
ricordare: “sindrome borderline”, “psicopatia”, “disturbo di personalità”.
Altri, invece, facevano discorsi lunghi e dotti ma sembravano dire, o almeno
così capivano loro: “Il ragazzo ha un pò di questo, un pò di quello e un pò di
quest’altro”. “Pippe mentali” diceva spesso, all’uscita, Alfonso, più
impaziente della moglie. “Male non farà!”, rispondeva Dorina, cui tutto quel
parlare aveva risvegliato qualche antico interesse. Però la situazione era in
stallo, il buio non si rischiarava, anzi, era sempre più pesto e la coppia era
confusa. La categoria degli esperti era quanto mai varia e disomogenea. Vennero
ricevuti da una strizzacervelli e dal suo cane (lei interruppe l’incontro per
dargli da mangiare), da algidi professionisti in camice e sigaro acceso, e una
volta Dorina, che si era presentata sola, perché il marito aveva la febbre,
ricevette le attenzioni di un esperto
che, vedendola molto in ansia, le propose di stendersi sul lettino per farle un
massaggio rigeneratore. Insomma, si sentivano come su una giostra: qualcuno li
faceva pagare profumatamente e nei quindici minuti del colloquio sembrava del
tutto assente e disinteressato; qualcun altro aveva onorari ridotti, oppure
offriva una consulenza gratuita; ci fu pure chi, trasportato dalla sua
eccezionale capacità empatica, si mise a piangere con loro.
Il fatto è che Dorina e
Alfonso, ispirati dal sano desiderio di capire qualcosa della sofferenza del
figlio, avevano sentito inizialmente un paio di specialisti. Ma poi la
diffidenza era cresciuta, probabilmente sostenuta dalle resistenze ad
affrontare veramente i problemi. Così, resistenze e pareri affrettati e
incongrui tra loro avevano creato una sorta di circolo vizioso: più cresceva la
prima, più si moltiplicavano le consultazioni; più queste ultime si rivelavano
inutili, più montava la diffidenza.
Stavano ormai per
desistere e programmare un viaggio a Lourdes (una vicina di casa asseriva che
così aveva risolto i problemi con il figlio) quando venne a trovarli il cugino
Mario, un solido signore di mezza età con la passione per la psicologia, che
aveva assecondato facendo una lunga psicoanalisi personale. “Vedete - spiegò
loro Mario, per nulla sorpreso dalle loro vicissitudini – il vostro problema si
trova in un’area all’incrocio fra la Medicina e la Psicologia, due discipline
che vengono spesso assimilate ma che, in realtà, sono profondamente diverse. La
Medicina parte dai sintomi riferiti soggettivamente dal paziente per procedere
poi con prove ed esami sempre più accurati tesi ad oggettivare via via la
situazione e a fornire una diagnosi eziopatogenetica”. “Ezioche?”, domandò
Alfonso. “Vuol dire che il medico individua e classifica la malattia e
ipotizza, per procedere poi alla cura, le cause che l’hanno determinata. E guai
se non facesse così! La psicologia, invece, si muove in direzione opposta,
cerca di soggettivare sempre di più i sintomi del soggetto sofferente per
capire che cosa c’è dietro. Il vero problema non sono i sintomi riferiti,
pensano gli psicologi, almeno una parte di loro - spiegò Mario, che intanto
sorrideva, pensando, fra sé e sé, che in Italia erano state censite ben 379
scuole di psicoterapia e che molte di loro scimmiottavano la disciplina medica
- ma la sofferenza che li ha determinati. Tacitare i sintomi, seguendo il
legittimo desiderio di chi soffre e di chi gli sta intorno, significa, in
psicologia, privarsi degli indicatori utili a comprendere il disagio del
paziente e a curarlo. I farmaci, oppure l’intervento suggestivo e rassicurante
dello specialista possono anche, lì per lì, farli sparire. Ma i sintomi, prima
o poi, probabilmente si ripresenteranno, magari sotto altra forma e con forza e
intensità maggiore”. Alfonso e Dorina ascoltavano Mario a bocca aperta. “Ma
allora, ecco perché il dottor Rossi ci faceva parlare tanto e il dottor Bianchi
così poco!” esclamò Mario, che finalmente cominciava a capire qualcosa.
“Sì, per lo
psicoterapeuta la sofferenza è sempre legata al contesto affettivo
dell’individuo e quindi alle sue relazioni. Per capirne qualcosa deve esplorare
queste ultime, inclusa la relazione che si viene a creare fra il terapeuta e i
suoi clienti/pazienti - continuò Mario- per lo specialista di formazione
medica, invece, parlare troppo è fonte di disturbo e di confusione. Lo
psicoterapeuta si coinvolge affettivamente e sa che l’atto stesso di entrare in
rapporto modifica quello che viene osservato; il medico, al contrario, si tiene
distante perché, come dice il proverbio ‘il medico pietoso fa la piaga
cancrenosa!’. Per il medico, ma anche per certi “psi” che al medico cercano di
assomigliare, il disturbo è tutto interno all’individuo e il
terapeuta-osservatore non fa che esplorarlo e metterlo allo scoperto”. “Ma
così, curarsi, orientarsi, diventa una vera impresa!” - esclamò Dorina . Mario
annuì, questa volta con un sorriso amaro.
Emilio
Masina