lunedì 21 maggio 2012

La depressione degli adolescenti 
Emilio Masina

E’ stata definita “malattia del secolo” e anche “ malattia della modernità” perché oggi è la prima causa di disfunzionalità nei soggetti tra i 14 e i 44 anni di età, precedendo patologie quali le malattie cardiovascolari e le neoplasie. L’OMS calcola che in Italia soffrano di depressione circa sei milioni di persone; altre statistiche parlano addirittura del venti per cento della popolazione. Negli Stati Uniti ogni anno si spendono dieci milioni di dollari in antidepressivi. Secondo ricerche epidemiologiche recenti la probabilità di avere un episodio depressivo maggiore entro i settanta anni è del 27% negli uomini e del 45% nelle donne.
Nei paesi industrializzati, a partire dal 1940, aumenta l’incidenza di tale disturbo e si abbassa l'età media d'insorgenza; ed è da notare che un disturbo depressivo precoce rappresenta un fattore di rischio per la comparsa di patologie come il disturbo bipolare o l'abuso di sostanze. Insomma, la depressione, dovuta all’azione combinata di una disregolazione neuromolecolare, in parte genetica, e di fattori psicologici e ambientali, che può compromettere il funzionamento di una persona, nonché le sue abilità ad adattarsi alla vita sociale, è sempre più considerata come una vera e propria pandemia, tanto che anche nel nostro Paese si diffondono tentativi di diagnosticarla sempre più precocemente, persino nei bambini delle scuole elementari. Tuttavia, ci si può chiedere: la depressione è davvero l’epidemia di un male o è la fortuna di un termine immaginifico? Non si rischia di abusare di questa diagnosi mescolando fra loro in un unico calderone tante forme diverse di disagio? Come spiega il giornalista Ethan Watters nel bel libro “Pazzi come noi. Depressione, anoressia, stress: malattie occidentali da esportazione”, il modo in cui una cultura pensa alle malattie mentali – le categorie e le priorità con cui analizza i sintomi, tenta di curarli e definisce le aspettative sul decorso e l’esito di queste malattie – influenza le malattie stesse. A proposito della depressione l’autore analizza il caso del Giappone, in cui la depressione, nel passato estremamente rara, è diventata diffusissima. Ciò è avvenuto grazie agli sforzi (e agli ingenti investimenti) delle multinazionali farmaceutiche americane di ridefinire come depressione, cioè come malattia da curare, gli stati d’animo melanconici che la cultura giapponese non solo non stigmatizzava ma addirittura considerava l’indicatore di una condizione illuminata. Nel nostro Paese e più un generale nel mondo occidentale vengono spesso infilati all’interno della categoria “depressione” i normali problemi della vita. Infatti, i sintomi di questa psicopatologia (affaticabilità o mancanza di energia, abbassamento del tono dell’umore, sentimenti di autosvalutazione, eccessivi o inappropriati sensi di colpa, insonnia o ipersonnia, diminuzione della capacità di pensare o di concentrarsi, difficoltà di prendere decisioni, ecc.), sono molto simili a quelli riscontrabili in persone che si trovano ad affrontare la morte di un coniuge o di un amico, la fine di un matrimonio, un fallimento o un cambiamento rilevante sul lavoro, oppure una malattia cronica e invalidante; e si differenziano da questi ultimi prevalentemente per l’intensità e l’insolita durata. Questa confusione non giova: infatti, nel caso dei sintomi scatenati da eventi particolarmente stressanti le cure farmacologiche e psicoterapiche possono essere inappropriate, o addirittura controproducenti, perché possono ostacolare una fisiologica elaborazione del lutto. Le cure, cioè, diventano una sorta di protesi o di surrogato della vita e possono contribuire alla passivizzazione della persona che soffre piuttosto che a una sua ripresa. Ma le complicazioni non finiscono qui. Come spiega la psicoanalista Simona Argentieri nel bell’articolo “La lacrima di Narciso” , quando si incontra una persona “depressa” bisogna anche distinguere fra le difese dalla depressione, spesso altrettanto invalidanti della depressione stessa (scissione, proiezione, diniego, fuga nella maniacalità o nello stordimento attraverso l’abuso di sostanze o il gioco d’azzardo, ecc.) e la depressione come difesa. Uno stato di grande passività e/o di inibizione, un senso di noia e apatia o, addirittura, un rallentamento psicosomatico, possono servire a tenere a bada un eccesso di pulsioni temute perché molto intense e confuse. La depressione, in questo secondo caso, opera come una difesa dal contatto mentale con nodi irrisolti della sessualità infantile (un misto di componenti sessuali e aggressive) e con un oggetto interno intricato e confuso tra sé e non sé. Un oggetto che si è incistato in una struttura mentale altrimenti funzionante e che è difficile da analizzare ed elaborare. Anche quando si incontrano gli adolescenti è bene tenere a mente questo intrico complesso di elementi. L’adolescenza comporta di per sé una serie complessa di cambiamenti intrapsichici e relazionali, inaugurati dalle trasformazioni corporee legate alla pubertà, Il cambiamento psichico, quale che sia il momento della vita in cui si verifica, confronta con rinunce e perdite e si accompagna ad una varietà di affetti intrecciati, anche contraddittori (angoscia, senso di vuoto, nostalgia, impotenza, accanto ad un senso di liberazione e di conquista) ed esige un lavoro elaborativo, non esente da interruzioni, sospensioni, ritorni all’indietro. In adolescenza, in particolare, tale lavoro prevede il disinvestimento dei vecchi oggetti e l’ investimento dei nuovi e comporta quote di sofferenza “depressiva”. Secondo il grande psicoanalista inglese Winnicott è fisiologico che l’adolescente attraversi una qualche forma di crisi depressiva perché deve separarsi dalle figure genitoriali e tollerare di non sentirsi pienamente reale e compiuto. Per Winnicott, infatti, l’adolescenza è una fase di transizione in cui si oscilla fra la capacità di reggere la depressione dovuta al sentimento di non sentirsi ancora reali e compiuti e l’uso dell’aggressività e degli acting out, anche violenti, che hanno una funzione apparentemente e temporaneamente integrativa e auto affermativa. Per Pietropolli Charmet la forma oggi più diffusa di depressione adolescenziale riguarda un ragazzo fragile “che non riesce a studiare e amare, si fa volere bene ma si annoia, non gli interessa nulla che non lo riguardi da vicino e dal di dentro. Un adolescente fragile più nei confronti di ciò che non succede, che di ciò che succede”. Un adolescente che ha bisogno di successo, visibilità, ascolto, relazione e se non riesce a ottenere nulla di tutto ciò rischia di ritirarsi al suo interno (e spesso, aggiungo io, all’interno della propria stanza, come gli hikikomori giapponesi) perdendo qualsiasi motivazione ad affrontare la vita e l’amore sull’onda del disprezzo, della noia, della più infondata supponenza. E’ un adolescente, scrive Charmet, introverso e narciso che è stato spesso coccolato da genitori bisognosi del suo sostegno e incapaci di reggere un conflitto, con il dolore mentale che esso arreca. Un adolescente che, incapace di soddisfare le esagerate aspettative dei genitori, sostituisce la vita reale con quella virtuale. Un adolescente che non conosce il tormento della colpa, né il dubbio, né il peccato, né la paura della condanna del castigo ma solo la paura di perdere la bellezza e la faccia, di essere svergognato e deriso per la propria inadeguatezza. L’esperienza che facciamo degli adolescenti sia in cooperativa che nei nostri studi ci ha consentito di capire che per loro tenere bassa la pressione vitale, sospendere gli studi e il contatto con i coetanei, rifiutare la sessualità, usare la famiglia di origine come un bozzolo in cui rifugiarsi, significa cercare di abolire la realtà, con le sue scomode e dolorose verifiche, costruendosi una sorta di realtà personalizzata. Una realtà che consente di ridurre al minimo gli stimoli indesiderati e quindi i movimenti aggressivi che rischiano di turbare la loro mente facendoli sentire dei mostri, diversi dagli angeli che pensavano di essere. Una realtà in cui l’ingrediente centrale è il computer, che sostiene la pretesa dei giovani di possedere una super mente, capace di espandersi a piacimento e di controllare il mondo. Questi disturbi depressivi o blocchi di sviluppo degli adolescenti quasi mai richiedono farmaci ma piuttosto di un ascolto attento e sensibile, di una relazione profonda in cui lo psicoterapeuta possa inizialmente sostenere e aiutare a fronteggiare le paure e i sentimenti di vergogna ma riesca poi anche a diventare, coraggiosamente, portavoce delle esigenze della realtà, invitando l’adolescente a uscire sempre più allo scoperto con i propri modi di sentire e di pensare e a riconnettersi con la vita.