sabato 15 dicembre 2012

Questione di concentrazione

Mario, insonne, spiega che per facilitare l’addormentamento chiude gli occhi e pensa alla sua barca a vela: Però non a quando naviga e si gode il viaggio, il sole e la brezza leggera che gli carezza la faccia, i riflessi del mare al tramonto oppure, quando è notte, lo splendore della luna piena.

sabato 3 novembre 2012

Poltrone?



Lorenzo mi racconta che i teatri di Londra, costruiti in età vittoriana, stanno sostituendo le loro scomode poltroncine, che non consentono di assumere una postura confortevole. La spina dorsale è costretta a curvarsi per sostenere il peso della testa e i muscoli di tutto il corpo vengono sottoposti a una sgradevole tensione. Gli spettatori fanno continui movimenti per trovare un assetto più comodo, oppure tendono ad appisolarsi. Ora verranno montate poltroncine ergonomiche ma sarà un cambiamento limitato: non come quando i teatri  venivano buttati giù e rifatti interamente, come è stato per il Theatre Royal, il più vecchio di Londra, demolito e ricostruito tre volte.
Ivano, invece, dice che si è rassegnato a cambiare i mobili della sua casa senza cambiare l’abitazione, che pure ha molti difetti. Sarebbe bello avere una casa nuova ma troppo faticoso e oneroso per le sue finanze.
Metafore architettoniche per parlare di sé e del nostro lavoro. I pazienti spesso vorrebbero cambiamenti limitati, selettivi, che tolgano il disagio senza obbligare a faticose ristrutturazioni. Le emergenze emozionali, come le pietanze troppo forti assaggiate all’estero, sono fastidiose e mettono in contatto con altri mondi.
E gli psicoanalisti? Tanti soffrono di mal di schiena, per le molte ore trascorse seduti ma soprattutto per le tensioni immagazzinate sul lavoro e comprano ingombranti poltrone ergonomiche. Più facile, anche per loro, piuttosto che tornare di tanto in tanto in analisi, come suggeriva Freud, affidarsi alla poltrona ortopedica?

            Emilio Masina

domenica 28 ottobre 2012

Attacco ai bambini



Ci sono immagini che segnano un’epoca perché riescono a dare corpo a un comune sentire rimasto inespresso. Proviamo la sensazione angosciosa che nel nostro Paese vi sia una crisi della funzione simbolica della legge e dell’autorità ed ecco che, dopo il faccione di Fiorito, incappiamo nel video sul prelievo forzato di un bambino a scuola per opera della Polizia di Stato.
Riassumo brevemente i fatti. Il giudice minorile dispone di togliere Lorenzo, dieci anni, figlio di genitori separati, alla potestà della madre e di portarlo in una comunità protetta per “riassestare e resettare i suoi rapporti affettivi in un ambiente consono al suo stile di vita”. Secondo lo psichiatra, consulente del Tribunale, la signora è responsabile di escludere l’ex marito dalla vita del bambino e di fare a quest’ultimo una sorta di lavaggio del cervello che lo spinge a vedere il padre come un alieno, cioè a soffrire di quella che viene chiamata in gergo tecnico Pas (Parental alienation Syndrome). Dopo due tentativi di prendere Lorenzo a casa, falliti perché lui, terrorizzato, si rifugia sotto il letto, polizia, assistenti sociali, psichiatra e padre del bambino vanno a scuola e, poiché Lorenzo si rifiuta di andare con loro, lo caricano di peso su una macchina. Vi è una colluttazione con il nonno e la zia materni che, armati di telecamera, da diverso tempo presidiano la scuola per opporsi a questo tipo di azioni. La signora urla: “Bastardi, i bambini non si portano via, vanno ascoltati! Ma chi siete voi? Quelli della Gestapo?”. Nel filmato si sente anche la voce di Lorenzo che chiede aiuto, mentre il padre lo tiene per i piedi, lo psichiatra per il braccio e un poliziotto per le spalle: “Aiutami, zia, non ce la faccio. Nonno, aiuto, non respiro!”.Una poliziotta, di fronte alle rimostranze della signora, afferma: “Non sono tenuta a parlarle. Io sono un ispettore di polizia, voi non siete niente!”. Nel clamore suscitato dalla vicenda ecco un campionario di dichiarazioni comparse sui giornali:“Sul bambino non ci sono lividi né ecchimosi” (psichiatra);. “Un provvedimento inevitabile, in cui l’esecuzione è sfuggita di mano” (magistrato); “L’operato dei miei uomini è stato cristallino: il ragazzino ha avuto una reazione violenta e il padre lo ha afferrato per i piedi, gli agenti sono intervenuti a sollevarlo da terra” (questore); “La forza è necessaria per liberare un bambino che è stato rapito” (padre). Gli stessi giornali hanno riportato che Lorenzo nella comunità per molti giorni ha tenuto addosso la stessa tuta che aveva a scuola, come se volesse fermare il tempo; e diversi commentatori hanno rilevato che bisognava interpellarlo, non forzarlo ad ubbidire: come se bastasse chiedere ad un bambino con chi vuole stare per risolvere una vicenda in cui i genitori lo strumentalizzano per avanzare le loro richieste.
Prima di riuscire a inquadrare razionalmente la triste vicenda, quel viluppo di corpi, quelle grida scomposte, ci comunicano l’impressione di un mondo impazzito, preda di emozioni violente. Un mondo incapace di pensare tensioni e conflitti ma solo di agirli in preda alla paranoia: un lucido delirio che porta a pensare che ogni male sia da attribuire sempre e solo agli altri. La paranoia, afferma lo psicoanalista Luigi Zoja, è’unico disturbo mentale dotato di autotropia, cioè di forza autonoma di moltiplicazione e di contagio. Accade così che il giudice, piuttosto che disporre l’approfondimento e la presa in carico delle cause del disagio familiare, preferisca rendere “orfano” il bambino di entrambi i genitori, collocandolo in una casa famiglia e sottraendogli tutte le sicurezze acquisite: la mamma, i nonni, la scuola, i compagni, lo sport. La parola “resettare”, evidentemente un lapsus freudiano, ci informa che il magistrato nel suo intimo non crede che le tensioni familiari possano essere affrontate, capite e risolte ma solo rimosse, come si fa con le informazioni di un computer, nell’illusione che si possa ricominciare daccapo. La stessa sfiducia sembra ispirare lo psichiatra che, invece di lavorare con il bambino e i genitori per esplorare e tentare di orientare il grave conflitto familiare, stigmatizza il comportamento della madre, ricorrendo alla diagnosi di Pas, un disturbo inesistente, al punto che l’Apa (American Psychiatric Association), ovvero l’associazione americana i cui membri sono specializzati in diagnosi, trattamento, prevenzione e ricerca di malattie mentali, lo ha escluso recentemente dal manuale diagnostico e statistico dei disturbi stessi (DSM 5). L’esimio consulente non si limita a utilizzare la scorciatoia della “malattia”; incapace com’è di fare ricorso a una competenza, ma si reca a scuola collaborando attivamente a traumatizzare il bambino e a ridurlo in uno stato, fisico e psicologico, di impotenza! E cosa dire dei rappresentanti della Polizia di Stato, a loro volta incapaci di cogliere l’inopportunità dell’uso della forza nel contesto delicato e fragile di una scuola elementare che, per di più, abusano del loro potere per ridurre al silenzio chi vi si oppone? Alla fine, ma potremmo dire all’inizio del circuito paranoico vediamo in azione un padre violento (accusato in precedenza dal figlio e dalla moglie di maltrattamenti) ma anche una famiglia militarizzata, quella materna, che fa la ronda attorno alla scuola di Lorenzo, ridotta ormai ad un campo di battaglia. La paranoia, infatti, non tollera il dubbio e i faticosi passaggi che la mente deve affrontare per esplorare e capire le cose difficili. Come molte guerre hanno dimostrato, precedere l’attacco del “nemico” significa evitare la morte somministrandola all’avversario. Penso che tutti noi ci siamo identificati con Lorenzo, con la sua fragilità di vaso di coccio fra i vasi di ferro. Abbiamo invocato il ritorno della ragione, una formazione psicologica per giudici, forze di polizia e anche per i consulenti incompetenti, incapaci di lavorare nelle e con le relazioni dei loro clienti; consulenti che oggettivano gli umani disagi come se fossero microbi da sconfiggere con gli antibiotici. Abbiamo pensato alle carenze della scuola e dell’università che, sempre più abbandonate a loro stesse, senza fondi e risorse, devono affrontare il predominio della logica mercantile ed economicistica, ispirata da un sempre meno velato darwinismo sociale. Ci sono venute in mente le tante famiglie in difficoltà, che rimangono isolate in un tessuto sociale sempre più disgregato. E i Tribunali, cui sempre più genitori ricorrono, nell’illusione che delegare il potere decisionale ad un terzo risparmi loro la fatica e il dolore di capire, e di ovviare, ai propri errori.  
Emilio Masina

domenica 21 ottobre 2012

Giacomo e il difficile incrocio tra Medicina e Psicologia (terza e ultima parte)

Mario aveva fatto una smorfia amara perché, parlando con Alfonso e Dorina, si era ricordato della fatica che aveva fatto lui per trovare uno psicoterapeuta competente. Prima di tutto aveva dovuto fare i conti con la sua incerta motivazione a farsi seguire da qualcuno che non fosse lui stesso. Era, all’epoca, un giovane chiuso e isolato, senza amici e incapace di trovare una donna, segnato dalla tristezza. Tuttavia, aveva una mente brillante – si era laureato in matematica con il massimo dei voti – e il suo interesse per la psicologia era, almeno così gli sembrava, puramente intellettuale. Insomma, Mario aveva delle inquietudini ma cercava, come tanti giovani adulti, di curarsi da sé. Insieme con alcuni libri in cui venivano accostati modelli matematici e psicologici, che aveva letteralmente divorato, aveva trovato una quantità di altre pubblicazioni, alcune paludate, altre molto più leggere. Era un lettore onnivoro che si buttava persino sulle riviste trovate dal barbiere, cercando, insieme agli ultimi pettegolezzi sui fidanzamenti e le separazioni delle coppie famose, la posta del cuore che leggeva con avidità immedesimandosi nei personaggi e nelle situazioni che venivano descritte. Nonostante questa bulimia letteraria gli avesse più volte generato una sensazione di nausea e di rigetto era riuscito a capire alcune profonde verità: 1) Vi era una certa vicinanza e contiguità tra scienze psicologiche e senso comune (alcuni discorsi degli psicologi si avvicinavano molto ai consigli di sua nonna!); 2) Questa vicinanza, se da un lato andava a scapito della serietà scientifica della psicologia, dall’altro lato ne amplificava enormemente l’importanza nella società. Leggendo tutto quel materiale a Mario sembrava che le aspettative nei confronti della psicologia fossero molto elevate e riguardassero ogni campo dell’esistenza umana. La genericità di queste aspettative (disagio, conflitti, eventi traumatici, malfunzionamento, ecc.) rendeva difficile ai potenziali clienti formulare delle domande di aiuto imperniate su obiettivi circoscritti utilizzabili come standard per valutare la prestazione professionale dello psicoterapeuta; 3) In una collusione con la genericità delle domande anche il sistema professionale degli psicologi offriva una serie di risposte che a lui sembravano poco convincenti: il nesso tra l’azione dello psicologo e il risultato promesso non era chiaro. O almeno, non altrettanto chiaro come quello del medico che si propone di arrivare alla guarigione, ad esempio eliminando dall’organismo malato il batterio responsabile. Vi era, insomma, una sorta di debolezza concettuale sia nell’offerta che nella domanda di prestazione psicologica e gli stessi interventi dello psicologo venivano valutati non in base all’azione di modelli specifici ma piuttosto in base al comune sentire.
Eppure, tutto questo ragionare di psicologia e di cure aveva fatto venire a Mario una gran voglia di discuterne con qualcuno. Continuando a prendere la questione della sua sofferenza alla larga, si era mosso sul web scoprendo che esistevano una serie di società di psicoterapeuti accreditate dal Ministero della ricerca scientifica. Però, la vastità dell’offerta lo aveva lasciato sconcertato: a chi rivolgersi in tanta abbondanza? Navigando aveva scoperto che uno psicologo su tre in Europa e uno su dieci nel Mondo era italiano: “Possibile che tutti gli italiani, oltre a voler scrivere un libro, vogliano diventare psicologi?” si era chiesto. Mario voleva anche sapere, dato che le sue risorse economiche erano limitate, quanto costasse una terapia ma le informazioni sul sito dell’Ordine Nazionale degli Psicologi non lo avevano granché aiutato: la fascia degli onorari per una seduta individuale era molto ampia - si andava dai 35 ai 115 euro. Sul sito si diceva che per la determinazione dell’onorario il professionista doveva tenere conto della situazione sociale e della condizione economica del cliente ma anche dell’urgenza e della complessità della prestazione richiesta. Tanto è vero che per le prestazioni professionali di eccezionale complessità gli onorari potevano essere aumentati sino al 30%. Ma chi decideva cosa era eccezionalmente complesso? Il cliente aveva voce in capitolo? Altri siti parlavano, più allusivamente, di una psicoterapia che sarebbe costata come una macchina di media cilindrata. “Forse ce la posso fare!” aveva pensato Mario, che da poco aveva cominciato a lavorare come insegnante. Ma poi si era imbattuto nei siti di quei professionisti che Freud - ma questo Mario non lo sapeva - avrebbe chiamato “selvaggi”: medici, psicologi e/o psicoterapeuti con scarsa competenza che promettevano mirabolanti cambiamenti, magari con l’ausilio di video raffinati in cui la telecamera oscillava tra il loro viso ispirato (o spiritato?) e il lettino (più poltrona) usato dagli psicoanalisti patentati. Si era spaventato moltissimo e per un bel po’ aveva soprasseduto. Con il senno di poi riconosceva di essere stato molto diffidente e che il suo modo sospettoso di ragionare faceva parte della sua “malattia”. Però riconosceva in se stesso anche una componente di sana cautela: voleva capire bene a chi avrebbe dovuto affidarsi prima di fare un passo che sentiva impegnativo e importante per il suo futuro.
Solo dopo molti ripensamenti Mario si era fatto coraggio e aveva cominciato a chiedere informazioni ai suoi conoscenti. Attraverso il passaparola e le buone referenze di ex-pazienti era arrivato a selezionare, fra i tanti strizzacervelli una rosa di tre nomi. Non restava che mettersi in gioco e prendere un appuntamento.
Il primo incontro si risolse in un sonoro fiasco: il dottore che lo ricevette era affabile ma parlava come una macchinetta, riempiendolo di domande. “Per fare un’anamnesi” si era giustificato ad un certo punto, rendendosi conto lui stesso, dalla ritrosia del cliente, che qualcosa non andava. E poi, quando Mario, timidamente aveva accennato ai suoi problemi con la moglie, gli aveva detto, ammiccando, che comprendeva: “Fra uomini possiamo condividere i problemi che ci danno le donne!”. Così, Mario lo aveva salutato e, nonostante l’insistenza del dottore per fissare un altro appuntamento, non si era più fatto vivo. La seconda volta fu più difficile: la dottoressa era più calma e sembrava disposta ad ascoltare. Era solo un po’ troppo gentile e sorridente e aveva una gonna piuttosto corta che, quando accavallava le gambe, induceva Mario a distrarsi dal filo dei suoi pensieri. La psicologa aveva fatto qualche commento sensato sulla sua situazione e alla fine del colloquio gli aveva detto che quel primo appuntamento era gratuito. Ci sarebbe stato tempo poi, se decideva di avviare un lavoro con lei, per pagare l’onorario. Mario era tornato, anche se non era del tutto convinto. Aveva deciso di darsi, di darle un’altra chance. Nel secondo incontro, aiutato dall’espressione seria e comprensiva della dottoressa, si era lasciato più andare e aveva raccontato, piangendo, un’episodio molto doloroso della propria infanzia. Ma proprio sul più bello, proprio quando gli pareva che il peso che aveva portato dentro per tanti anni potesse essere finalmente condiviso con qualcuno, la dottoressa si era alzata per andare a prendergli i fazzolettini nell’altra stanza. In un lampo di dolorosa consapevolezza Mario aveva capito che la psicologa non riusciva a tollerare la sofferenza che lui stava esprimendo e aveva dovuto interrompere il contatto. Per non avere rimorsi, era riuscito a pagare l’onorario ma non ad avere la ricevuta – “Purtroppo noi professionisti siamo gravati da un’elevata pressione fiscale e dobbiamo difenderci”, aveva detto lei. Mario era uscito irritato per il tempo e le energie sprecate: “Questi stanno peggio di noi!” si era detto, cercando di far evaporare la rabbia .
“E poi che cosa è successo?” chiese Alfonso. Mario non si era quasi reso conto di aver raccontato ai suoi amici il suo percorso di avvicinamento alla psicoterapia. “Ho trovato quello giusto” – rispose, allentando la stretta della mascella in un sorriso. “Sai, Alfonso, ho capito attraverso le mie esperienze che molte volte noi clienti ci accontentiamo troppo facilmente di chi ci viene presentato. E’ come se non volessimo fare fatica e non vedessimo l’ora di delegare a qualcuno, non importa chi, la soluzione dei nostri problemi. Cerchiamo di essere pazienti, piuttosto che clienti. Insomma – concluse Mario - si potrebbe dire che ciascuno ha il terapeuta che si merita!”.
Si era fatto tardi e Mario tornò a casa. Dorina e Alfonso scambiarono qualche opinione sulla serata: “E’ stato interessante”, disse Alfonso. “Ma anche molto duro”, esclamò Dorina. “Ci ha fatto capire che dobbiamo essere attivi nella ricerca di aiuto”, disse Alfonso. “E anche che possiamo essere in difficoltà ma non senza risorse”, aggiunse Dorina. Chiamarono Giacomo nel solito tentativo di capire dove fosse finito ma quando si accorsero che il cellulare era spento non reagirono con rabbia, come le altre volte. Anzi, andarono a letto abbracciati. “Domani è un altro giorno”, disse Dorina, prima di spegnere la luce.

domenica 30 settembre 2012

Giacomo e il difficile incrocio fra medicina e psicologia (Parte seconda)


La famiglia era impreparata. Avevano sempre gestito le loro emozioni in modo impulsivo, cioè sfogandole attraverso l’azione. Eruzioni gassose, bolle che, una volta scoppiate, consentivano di tornare a un precario equilibrio. “Pensare troppo fa male”, ripeteva spesso Dorina, la madre di Giacomo. “Pippe mentali”, rincarava Alfonso, il padre. Così, quando la scuola ipotizzò che il ragazzo avesse dei problemi psicologici e loro dovettero, controvoglia, affacciarsi sull’incrocio fra Medicina e Psicologia rimasero paralizzati dallo stupore. A loro, per essere precisi, non sembrava ancora un incrocio ma piuttosto, come spiegarono anni dopo ad alcuni conoscenti, un vortice che li aveva scalzati dalla loro vita ordinaria, forse un po’ banale ma prevedibile, e gettati dentro un baratro incommensurabile. Nel buco nero una serie di luci fioche illuminavano a stento un intrico di strade, sentieri e sentierini, simile a un labirinto o alla tela di un ragno. All’imbocco si potevano scorgere targhe con nomi alcune volte comprensibili, altre volte astrusi: Dipartimento di Salute Mentale, Istituto di Neuropsichiatria Infantile, Servizio di Neuropsicologia, Ambulatorio contro le Dipendenze, Comunità Terapeutica, Sert.
I genitori di Giacomo erano diplomati ma mai avrebbero pensato di doversi confrontare con una tale complessità e più il buco li assorbiva più l’esercito di targhe e di specialisti si moltiplicava. Conobbero omeopati e medici di base, psichiatri e psicoterapeuti di diverso orientamento, educatori e assistenti sociali, rubriche televisive e siti di consultazione on line. Furono assaliti da un nugolo di amici di famiglia pronti a mettere a disposizione le loro esperienze di vita, sacerdoti volenterosi, insegnanti-improvvisatisi psicologi. Rifiutarono solo di conoscere i maghi che, attraverso il passaparola, garantivano guarigioni miracolose: “Siamo ignoranti ma non stupidi”, diceva Dorina; “Ignoranti ma non creduloni”, rincarava Alfonso. Il fatto è che Giacomo non voleva saperne di nulla: continuava a far disperare i genitori uscendo di casa e facendo perdere le sue tracce; saltava la scuola, fumava erba e forse, le prove non erano determinanti, anche qualche droga pesante; ma, soprattutto, continuava a rubare in casa nonostante i genitori facessero il possibile per sorvegliare borse e portafogli, chiudessero a chiave le porte, nascondessero gli oggetti preziosi. Bastava un attimo di disattenzione e zac! qualcosa spariva. Ogni tanto il figlio accettava di vedere uno specialista ma durava uno o due incontri. Poi saltava l’appuntamento successivo, dicendo che non aveva bisogno di niente, che dovevano dargli un po’ di soldi e lasciarlo in pace, che a curarsi dovevano essere loro. E bisognava ricominciare. Loro le avevano provate tutte: con le buone e con le cattive. L’ultima volta che il ragazzo l’aveva pesantemente apostrofato il padre gli aveva mollato un manrovescio, con l’unico risultato di far peggiorare la situazione. Giacomo, bestemmiando, l’aveva spinto con forza contro un armadio, facendogli perdere l’equilibrio e solo il provvidenziale intervento di Dorina, che si era messa, tra i due, aveva evitato il peggio.
A cercare aiuto erano rimasti i genitori ma, più procedevano, più si confondevano. Qualche esperto li spaventava dicendo che il ragazzo era sull’orlo della malattia mentale e bisognava correre ai ripari con un cocktail mirato di farmaci, magari messi di nascosto nella minestra . Chi, al contrario, li rassicurava: quelle di Giacomo erano solo ragazzate, fisiologiche irruzioni di disordinata vitalità caratteristiche della sua età: bastava avere pazienza e si sarebbero risolte da sole. Altri proponevano cambiamenti di scuola, punizioni esemplari o l’invio del ragazzo in un collegio svizzero dove lo avrebbero rieducato al rispetto delle regole. Ma l’uso delle sostanze era, secondo altri esperti, la prova evidente di un necessario e improcrastinabile ricovero in una comunità per tossicodipendenti. Il medico di famiglia e un cugino neurologo invece, suggerivano, più prosaicamente, di sottoporre Giacomo ad una TAC, per vedere se l’incidente in motorino avesse causato danni cerebrali responsabili dei suoi cambiamenti di carattere.
Alla domanda che, ansiosamente, rivolgevano a tutti: “Mi dica, dottore, che cosa ha?”, qualche specialista rispondeva con diagnosi dai nomi difficili, anche solo da ricordare: “sindrome borderline”, “psicopatia”, “disturbo di personalità”. Altri, invece, facevano discorsi lunghi e dotti ma sembravano dire, o almeno così capivano loro: “Il ragazzo ha un pò di questo, un pò di quello e un pò di quest’altro”. “Pippe mentali” diceva spesso, all’uscita, Alfonso, più impaziente della moglie. “Male non farà!”, rispondeva Dorina, cui tutto quel parlare aveva risvegliato qualche antico interesse. Però la situazione era in stallo, il buio non si rischiarava, anzi, era sempre più pesto e la coppia era confusa. La categoria degli esperti era quanto mai varia e disomogenea. Vennero ricevuti da una strizzacervelli e dal suo cane (lei interruppe l’incontro per dargli da mangiare), da algidi professionisti in camice e sigaro acceso, e una volta Dorina, che si era presentata sola, perché il marito aveva la febbre, ricevette le attenzioni di un  esperto che, vedendola molto in ansia, le propose di stendersi sul lettino per farle un massaggio rigeneratore. Insomma, si sentivano come su una giostra: qualcuno li faceva pagare profumatamente e nei quindici minuti del colloquio sembrava del tutto assente e disinteressato; qualcun altro aveva onorari ridotti, oppure offriva una consulenza gratuita; ci fu pure chi, trasportato dalla sua eccezionale capacità empatica, si mise a piangere con loro.
Il fatto è che Dorina e Alfonso, ispirati dal sano desiderio di capire qualcosa della sofferenza del figlio, avevano sentito inizialmente un paio di specialisti. Ma poi la diffidenza era cresciuta, probabilmente sostenuta dalle resistenze ad affrontare veramente i problemi. Così, resistenze e pareri affrettati e incongrui tra loro avevano creato una sorta di circolo vizioso: più cresceva la prima, più si moltiplicavano le consultazioni; più queste ultime si rivelavano inutili, più montava la diffidenza.
Stavano ormai per desistere e programmare un viaggio a Lourdes (una vicina di casa asseriva che così aveva risolto i problemi con il figlio) quando venne a trovarli il cugino Mario, un solido signore di mezza età con la passione per la psicologia, che aveva assecondato facendo una lunga psicoanalisi personale. “Vedete - spiegò loro Mario, per nulla sorpreso dalle loro vicissitudini – il vostro problema si trova in un’area all’incrocio fra la Medicina e la Psicologia, due discipline che vengono spesso assimilate ma che, in realtà, sono profondamente diverse. La Medicina parte dai sintomi riferiti soggettivamente dal paziente per procedere poi con prove ed esami sempre più accurati tesi ad oggettivare via via la situazione e a fornire una diagnosi eziopatogenetica”. “Ezioche?”, domandò Alfonso. “Vuol dire che il medico individua e classifica la malattia e ipotizza, per procedere poi alla cura, le cause che l’hanno determinata. E guai se non facesse così! La psicologia, invece, si muove in direzione opposta, cerca di soggettivare sempre di più i sintomi del soggetto sofferente per capire che cosa c’è dietro. Il vero problema non sono i sintomi riferiti, pensano gli psicologi, almeno una parte di loro - spiegò Mario, che intanto sorrideva, pensando, fra sé e sé, che in Italia erano state censite ben 379 scuole di psicoterapia e che molte di loro scimmiottavano la disciplina medica - ma la sofferenza che li ha determinati. Tacitare i sintomi, seguendo il legittimo desiderio di chi soffre e di chi gli sta intorno, significa, in psicologia, privarsi degli indicatori utili a comprendere il disagio del paziente e a curarlo. I farmaci, oppure l’intervento suggestivo e rassicurante dello specialista possono anche, lì per lì, farli sparire. Ma i sintomi, prima o poi, probabilmente si ripresenteranno, magari sotto altra forma e con forza e intensità maggiore”. Alfonso e Dorina ascoltavano Mario a bocca aperta. “Ma allora, ecco perché il dottor Rossi ci faceva parlare tanto e il dottor Bianchi così poco!” esclamò Mario, che finalmente cominciava a capire qualcosa.
“Sì, per lo psicoterapeuta la sofferenza è sempre legata al contesto affettivo dell’individuo e quindi alle sue relazioni. Per capirne qualcosa deve esplorare queste ultime, inclusa la relazione che si viene a creare fra il terapeuta e i suoi clienti/pazienti - continuò Mario- per lo specialista di formazione medica, invece, parlare troppo è fonte di disturbo e di confusione. Lo psicoterapeuta si coinvolge affettivamente e sa che l’atto stesso di entrare in rapporto modifica quello che viene osservato; il medico, al contrario, si tiene distante perché, come dice il proverbio ‘il medico pietoso fa la piaga cancrenosa!’. Per il medico, ma anche per certi “psi” che al medico cercano di assomigliare, il disturbo è tutto interno all’individuo e il terapeuta-osservatore non fa che esplorarlo e metterlo allo scoperto”. “Ma così, curarsi, orientarsi, diventa una vera impresa!” - esclamò Dorina . Mario annuì, questa volta con un sorriso amaro.

Emilio Masina

martedì 25 settembre 2012

Giacomo e il difficile incrocio tra la medicina e la psicologia (parte prima)



A Giacomo avevano sempre detto che era un bambino speciale: . irrequieto ma curioso, poco disciplinato ma forte nel gioco del pallone, provocatorio ma anche tenero e affettuoso. Quando dormiva con mamma, oppure con papà, perché i genitori si erano separati appena dopo la sua nascita, li abbracciava forte per consolarli di tutti i loro guai. In quei momenti loro lo perdonavano per ciò che aveva combinato durante la giornata e lo vezzeggiavano dicendogli che era sensibile e intuitivo: insomma un ometto. In quarta elementare, per vendicarsi di un brutto voto, aveva preso a calci l’insegnante ma i genitori gli avevano cambiato classe perché lei non lo capiva. In seconda media era stato sospeso perché trovato a tirare gavettoni sui passanti dalle finestre della scuola e anche quella volta era stato trasferito in un istituto meno repressivo. Ma allora perché, ora che aveva sedici anni, Giacomo si sentiva così teso, così poco capito? Perché i genitori avevano cominciato a dare così importanza ai suoi insuccessi scolastici, ai suoi giri in motorino per la città, a quell’incidente che era capitato, certo non per colpa sua, e che lo aveva costretto per due mesi alle stampelle? Non gli avevano fatto aggiustare “il motore” e avevano ridotto la paghetta a percentuali da fame; proprio a lui che veniva da una delle famiglie meno benestanti e abitando in quartiere di ricchi già faceva fatica a tenere i confronti! Anche il rapporto con i suoi amici si stava modificando. Era sempre un capetto, capace di far ridere tutti con le sue gag durante le lezioni. Affrontava i professori senza paura né pudore, come se fossero una mamma o un papà un po’ più seriosi, che di fronte alle interruzioni protestavano ma, sotto sotto, erano contenti che la loro giornata si rivelasse meno noiosa del solito e grati per quell’irruzione di vitalità a buon mercato.  Giacomo sapeva parlare, inventare storie, imitare i politici. Aveva imparato a essere imprevedibile, a fare il contrario di quello che ci si aspettava da lui. “Botta di classe”, diceva. Però la sua corte si andava progressivamente riducendo: le femmine erano sempre meno e per una che si faceva toccare ce n’erano due che gli dicevano di finirla con i giochetti. E anche per il petting, ormai, doveva ricorrere sempre più spesso all’aiuto dell’alcool o dell’erba. Per darsi coraggio, si raccontava, gli raccontava, che non sapeva fare a botte ma si era fatto la fama di uno che per uno sgarro era disposto ad uccidere. Di maschi ne aveva sempre intorno, ma i più sfigati, quelli che, come lui, erano già stati bocciati e ora vivacchiavano nelle scuole private per deficienti danarosi. Quelli che “farò due anni, anzi tre, in uno, e dimostrerò a tutti quello che valgo”. Dopo i diciotto anni, si dicevano, la nostra vita cambierà. Fino ad allora dobbiamo provare tutto, fare esperienza. Si chiamavano fratelli ma Giacomo aveva avuto più di un’occasione per scoprire che non era vero: una volta, ad una festa, era sparito un orologio e uno dei suoi più cari amici aveva accusato lui, che non c’entrava niente. Infame. Il mondo si stava capovolgendo! Giacomo non credeva più a se stesso, non credeva più negli altri. Si sentiva spesso triste, senza una ragione, sentiva un vuoto dentro la testa e immediatamente dopo, o subito prima, un affastellarsi di pensieri che non riusciva a identificare bene. La notte dormiva male e gli faceva paura addormentarsi, perdere il controllo. Cercava di tirare fino a tardi per rimandare il sonno ma quando ormai pensava di avercela fatta a resistere, improvvisamente crollava. Non c’erano sogni ma incubi, indecifrabili come i pensieri della veglia.
Un giorno, girovagando per il quartiere, si trovò di fronte alla sala scommesse. Sulla porta c’era un suo conoscente: “Bella, fraté! Come butta?”. Entrarono insieme e quello cominciò a spiegargli come si puntava: bastava poco e si poteva guadagnare molto. Ma quel fratello lucignolo non lo avvisò che c’era un trucco. I gestori, violando la legge, che vietava il gioco d’azzardo ai minori di diciotto anni, facevano puntare tutti. E, all’inizio, ti facevano vincere. Così tu ti gasavi e insistevi. Poi, alla seconda o alla terza settimana, cominciavi a perdere ma “quelli” erano benevoli e ti facevano credito. Fino a quando il debito accumulato diventava cospicuo e allora cominciavano le richieste di resituzione: prima blande, poi più decise, fino ad arrivare all’allusione che se tu non avessi obbedito ci sarebbero state gravi conseguenze. Dopo due mesi Giacomo raggiunse un debito di duemila euro ma ancora non mollava, anzi, si raccontava di azzeccarle tutte perché ogni tanto, con un aiutino clandestino del gestore, recuperava improvvisamente qualche centone: “Sono magico, telepatico, gli altri mi chiedono consigli su come giocare!” pensava, perché ormai faceva da capocordata ad altri polli entrati dopo di lui. Ma quando il suo conoscente gli spiegò che “quelli” facevano sul serio e che più di un ragazzo ci era andato per le piste perché lo avevano aspettato sotto casa e riempito di botte, cominciò a spaventarsi. Non disse niente ai genitori ma l’argenteria di casa si volatilizzò. Negò, spergiurò che non era stato lui ma i genitori non ci credettero: li aveva colpiti il fatto che Giacomo, il loro figlio adorato, avesse rubato oggetti che avevano un valore economico ma, soprattutto, un grande valore affettivo: le posate ereditate dalla nonna, l’orologio del nonno. Si scatenò un putiferio perché i genitori cominicarono a incolparsi l’un l’altro di aver sbagliato l’educazione del figlio. La situazione peggiorò, fino a quando, in seguito ad una bravata di Giacomo che era salito sull’alto muro di cinta della scuola minacciando di buttarsi giù, il ragazzo e la sua famiglia si trovarono, quasi senza saperlo e senza volerlo, all’ incrocio fra la medicina e la psicologia: un incrocio difficile, dove ogni passo, se non viene pensato con cura, risulta fatale. (Fine prima parte).

Emilio Masina

mercoledì 25 luglio 2012

Terremoti

Stamattina le strade erano vuote perché la gente ha preso per vera la previsione del terremoto fatta anni fa dallo scienziato-stregone.

I miei pazienti adolescenti, invece, sono arrivati eccitati: il ragazzo quindicenne è arrabbiato perché aveva chiesto di rimanere a casa a dormire ma i genitori non hanno capitolato; la sedicenne, in difficoltà con la scuola, ha confessato che lei e i suoi compagni speravano che il terremoto danneggiasse gravemente l’edificio, in modo da avere la promozione assicurata. Il giovane adulto ventunenne, suicida potenziale,  impegnato in un faticoso percorso di separazione dai genitori e individuazione di una strada personale, ha fantasticato di rimanere sepolto insieme a tutti gli altri: “Meglio sepolti insieme, che sentirmi isolato, incapace di lasciare un segno nel mondo!”.


Per gli adolescenti i rivolgimenti della terra sono meno importanti di quelli del loro mondo interiore. Dovendo scegliere, preferiscono i primi. Pare loro di riuscire ad addomesticarli e usarli a proprio vantaggio. I terremoti interni no. Quelli, mettono veramente paura.
Emilio Masina

lunedì 21 maggio 2012

La depressione degli adolescenti 
Emilio Masina

E’ stata definita “malattia del secolo” e anche “ malattia della modernità” perché oggi è la prima causa di disfunzionalità nei soggetti tra i 14 e i 44 anni di età, precedendo patologie quali le malattie cardiovascolari e le neoplasie. L’OMS calcola che in Italia soffrano di depressione circa sei milioni di persone; altre statistiche parlano addirittura del venti per cento della popolazione. Negli Stati Uniti ogni anno si spendono dieci milioni di dollari in antidepressivi. Secondo ricerche epidemiologiche recenti la probabilità di avere un episodio depressivo maggiore entro i settanta anni è del 27% negli uomini e del 45% nelle donne.
Nei paesi industrializzati, a partire dal 1940, aumenta l’incidenza di tale disturbo e si abbassa l'età media d'insorgenza; ed è da notare che un disturbo depressivo precoce rappresenta un fattore di rischio per la comparsa di patologie come il disturbo bipolare o l'abuso di sostanze. Insomma, la depressione, dovuta all’azione combinata di una disregolazione neuromolecolare, in parte genetica, e di fattori psicologici e ambientali, che può compromettere il funzionamento di una persona, nonché le sue abilità ad adattarsi alla vita sociale, è sempre più considerata come una vera e propria pandemia, tanto che anche nel nostro Paese si diffondono tentativi di diagnosticarla sempre più precocemente, persino nei bambini delle scuole elementari. Tuttavia, ci si può chiedere: la depressione è davvero l’epidemia di un male o è la fortuna di un termine immaginifico? Non si rischia di abusare di questa diagnosi mescolando fra loro in un unico calderone tante forme diverse di disagio? Come spiega il giornalista Ethan Watters nel bel libro “Pazzi come noi. Depressione, anoressia, stress: malattie occidentali da esportazione”, il modo in cui una cultura pensa alle malattie mentali – le categorie e le priorità con cui analizza i sintomi, tenta di curarli e definisce le aspettative sul decorso e l’esito di queste malattie – influenza le malattie stesse. A proposito della depressione l’autore analizza il caso del Giappone, in cui la depressione, nel passato estremamente rara, è diventata diffusissima. Ciò è avvenuto grazie agli sforzi (e agli ingenti investimenti) delle multinazionali farmaceutiche americane di ridefinire come depressione, cioè come malattia da curare, gli stati d’animo melanconici che la cultura giapponese non solo non stigmatizzava ma addirittura considerava l’indicatore di una condizione illuminata. Nel nostro Paese e più un generale nel mondo occidentale vengono spesso infilati all’interno della categoria “depressione” i normali problemi della vita. Infatti, i sintomi di questa psicopatologia (affaticabilità o mancanza di energia, abbassamento del tono dell’umore, sentimenti di autosvalutazione, eccessivi o inappropriati sensi di colpa, insonnia o ipersonnia, diminuzione della capacità di pensare o di concentrarsi, difficoltà di prendere decisioni, ecc.), sono molto simili a quelli riscontrabili in persone che si trovano ad affrontare la morte di un coniuge o di un amico, la fine di un matrimonio, un fallimento o un cambiamento rilevante sul lavoro, oppure una malattia cronica e invalidante; e si differenziano da questi ultimi prevalentemente per l’intensità e l’insolita durata. Questa confusione non giova: infatti, nel caso dei sintomi scatenati da eventi particolarmente stressanti le cure farmacologiche e psicoterapiche possono essere inappropriate, o addirittura controproducenti, perché possono ostacolare una fisiologica elaborazione del lutto. Le cure, cioè, diventano una sorta di protesi o di surrogato della vita e possono contribuire alla passivizzazione della persona che soffre piuttosto che a una sua ripresa. Ma le complicazioni non finiscono qui. Come spiega la psicoanalista Simona Argentieri nel bell’articolo “La lacrima di Narciso” , quando si incontra una persona “depressa” bisogna anche distinguere fra le difese dalla depressione, spesso altrettanto invalidanti della depressione stessa (scissione, proiezione, diniego, fuga nella maniacalità o nello stordimento attraverso l’abuso di sostanze o il gioco d’azzardo, ecc.) e la depressione come difesa. Uno stato di grande passività e/o di inibizione, un senso di noia e apatia o, addirittura, un rallentamento psicosomatico, possono servire a tenere a bada un eccesso di pulsioni temute perché molto intense e confuse. La depressione, in questo secondo caso, opera come una difesa dal contatto mentale con nodi irrisolti della sessualità infantile (un misto di componenti sessuali e aggressive) e con un oggetto interno intricato e confuso tra sé e non sé. Un oggetto che si è incistato in una struttura mentale altrimenti funzionante e che è difficile da analizzare ed elaborare. Anche quando si incontrano gli adolescenti è bene tenere a mente questo intrico complesso di elementi. L’adolescenza comporta di per sé una serie complessa di cambiamenti intrapsichici e relazionali, inaugurati dalle trasformazioni corporee legate alla pubertà, Il cambiamento psichico, quale che sia il momento della vita in cui si verifica, confronta con rinunce e perdite e si accompagna ad una varietà di affetti intrecciati, anche contraddittori (angoscia, senso di vuoto, nostalgia, impotenza, accanto ad un senso di liberazione e di conquista) ed esige un lavoro elaborativo, non esente da interruzioni, sospensioni, ritorni all’indietro. In adolescenza, in particolare, tale lavoro prevede il disinvestimento dei vecchi oggetti e l’ investimento dei nuovi e comporta quote di sofferenza “depressiva”. Secondo il grande psicoanalista inglese Winnicott è fisiologico che l’adolescente attraversi una qualche forma di crisi depressiva perché deve separarsi dalle figure genitoriali e tollerare di non sentirsi pienamente reale e compiuto. Per Winnicott, infatti, l’adolescenza è una fase di transizione in cui si oscilla fra la capacità di reggere la depressione dovuta al sentimento di non sentirsi ancora reali e compiuti e l’uso dell’aggressività e degli acting out, anche violenti, che hanno una funzione apparentemente e temporaneamente integrativa e auto affermativa. Per Pietropolli Charmet la forma oggi più diffusa di depressione adolescenziale riguarda un ragazzo fragile “che non riesce a studiare e amare, si fa volere bene ma si annoia, non gli interessa nulla che non lo riguardi da vicino e dal di dentro. Un adolescente fragile più nei confronti di ciò che non succede, che di ciò che succede”. Un adolescente che ha bisogno di successo, visibilità, ascolto, relazione e se non riesce a ottenere nulla di tutto ciò rischia di ritirarsi al suo interno (e spesso, aggiungo io, all’interno della propria stanza, come gli hikikomori giapponesi) perdendo qualsiasi motivazione ad affrontare la vita e l’amore sull’onda del disprezzo, della noia, della più infondata supponenza. E’ un adolescente, scrive Charmet, introverso e narciso che è stato spesso coccolato da genitori bisognosi del suo sostegno e incapaci di reggere un conflitto, con il dolore mentale che esso arreca. Un adolescente che, incapace di soddisfare le esagerate aspettative dei genitori, sostituisce la vita reale con quella virtuale. Un adolescente che non conosce il tormento della colpa, né il dubbio, né il peccato, né la paura della condanna del castigo ma solo la paura di perdere la bellezza e la faccia, di essere svergognato e deriso per la propria inadeguatezza. L’esperienza che facciamo degli adolescenti sia in cooperativa che nei nostri studi ci ha consentito di capire che per loro tenere bassa la pressione vitale, sospendere gli studi e il contatto con i coetanei, rifiutare la sessualità, usare la famiglia di origine come un bozzolo in cui rifugiarsi, significa cercare di abolire la realtà, con le sue scomode e dolorose verifiche, costruendosi una sorta di realtà personalizzata. Una realtà che consente di ridurre al minimo gli stimoli indesiderati e quindi i movimenti aggressivi che rischiano di turbare la loro mente facendoli sentire dei mostri, diversi dagli angeli che pensavano di essere. Una realtà in cui l’ingrediente centrale è il computer, che sostiene la pretesa dei giovani di possedere una super mente, capace di espandersi a piacimento e di controllare il mondo. Questi disturbi depressivi o blocchi di sviluppo degli adolescenti quasi mai richiedono farmaci ma piuttosto di un ascolto attento e sensibile, di una relazione profonda in cui lo psicoterapeuta possa inizialmente sostenere e aiutare a fronteggiare le paure e i sentimenti di vergogna ma riesca poi anche a diventare, coraggiosamente, portavoce delle esigenze della realtà, invitando l’adolescente a uscire sempre più allo scoperto con i propri modi di sentire e di pensare e a riconnettersi con la vita.