domenica 21 aprile 2013

In treatment

Il mestiere dello psicoterapeuta è, per i non addetti ai lavori, intrigante ma difficilmente comprensibile. Ne sfuggono le regole, i principi ispiratori e i meccanismi di funzionamento che lo differenziano rispetto ad altre relazioni di aiuto: la confessione religiosa, la consulenza di un filosofo o addirittura di un mago, la chiacchierata fra amici. Così può capitare che, magari durante un invito a cena, uno sconosciuto ti dica, dopo aver saputo che lavoro fai, che deve fare attenzione perché tu puoi capire facilmente tutto di lui. Il pubblico profano, cioè, ha una visione stereotipata della figura professionale dello psicoterapeuta.


Quest’ultima è considerata in possesso di competenze in grado di governare ogni campo esistenziale e processo di adattamento. Tuttavia, nessuno sa in che consistano queste competenze e come vengano esercitate. Spesso i pazienti parlano della loro sfiducia o fiducia nel dottore e nella sua tecnica ma non ne discutono abbastanza gli esiti: “La psicoterapia è una fede – mi ha detto una volta uno di loro, alla sua terza tranche di terapia – come la Roma!”. Mentre il pubblico dei profani sa benissimo che la guarigione proposta dal medico si basa, ad esempio, sull’eliminazione di un batterio dall’organismo malato; oppure che l’insonorizzazione di un ambiente affidata all’  ingegnere sarà mirata al cambiamento della lunghezza d’onda dei suoni presenti, l’operato dello psicoterapeuta rimane ancorato al senso comune. Si sa  che a una coppia in crisi fa bene parlare con un terzo che ne favorisca la comunicazione ma come questo processo venga condotto dall’ esperto non è affatto chiaro.
Ciò avviene non solo per la difficoltà degli psicoterapeuti di comunicare i loro metodi e i loro obiettivi ma anche per una sorta di proletarizzazione della clientela. Nel passato si rivolgeva agli psicoterapeuti un gruppo di persone selezionate, colte e benestanti, che cercavano nella psicoterapia, soprattutto in quella psicoanalitica, un’esperienza esistenziale formativa; mentre oggi lo studio è frequentato da pazienti di ogni categoria sociale, più educati dai format televisivi che dai libri.
Si hanno, così, effetti paradossali: da un lato andare dallo psicoterapeuta non significa più essere considerato matto; al contrario, si tende a recarsi dall’esperto anche per trattare eventi della normale esistenza, come un lutto o una separazione. Eventi che, nel passato, venivano affrontati da soli. Dall’altro lato, la professionalità psicologica, ormai demitizzata, viene considerata “debole”: centinaia di giovani si iscrivono ai corsi di psicologia, ritenendoli più facili di quelli di ingegneria, di medicina o di matematica. E si va spesso dallo psicoterapeuta come dal dentista o dal droghiere. “Può togliermi questo dente per favore? Mi fa soffrire troppo!”. “Può vendermi due etti di felicità e un etto di vitalità?”
Per tutti questi motivi ero curioso di vedere la nuova serie televisiva “In treatment”, remake del sequel americano, ormai giunto alla terza edizione, con Sergio Castellitto nei panni dello psicoanalista al lavoro nel proprio studio. Purtroppo, la realtà si è rivelata peggiore delle mie ipotesi più nere. Innanzitutto, ma questo c’era da aspettarselo, perché è difficile portare il teatro in televisione, come prometteva la pubblicità, ho assistito ad un’eccessiva spettacolarizzazione delle sedute. La caratterizzazione dei personaggi lascia poco spazio alle sfumature, così importanti, invece, nel lavoro psicoterapeutico e lo psicoanalista ne risulta spaventato e travolto, incapace di mettere un confine fra sé e la propria vita privata e quelle dei suoi pazienti. La sua inerzia mi ha fatto venire alla mente il film “Terapia e pallottole” in cui il terapeuta, costretto da un pericoloso mafioso a prenderlo in analisi, gli ripeteva in continuazione: “Come si sente a riguardo?”, perché qualunque altro commento avrebbe potuto fare arrabbiare il suo interlocutore! In secondo luogo, anche nello sceneggiato, emerge una rappresentazione sociale della psicoterapia come debole e screditata. I pazienti del dottor Mari/Castellitto rifiutano di essere convocati sulla relazione con loro stessi e con l’analista, in modo da interrompere gli agiti e darsi lo spazio per pensare alle loro emozioni ma, al contrario, vogliono fare del dottore un uso concreto, rapido e il più possibile indolore: una coppia gli chiede categoricamente di dirimere il loro litigio dicendo se la donna deve abortire il figlio atteso; una ragazza adolescente gli ingiunge di scrivere una relazione per l’assicurazione sull’incidente che le è occorso, smentendo l’idea che lei abbia voluto suicidarsi; una giovane donna, addirittura, vorrebbe che il Suo analista!, acconsentisse ad una relazione sessuale con lei. Insomma, al dottore vengono proposti fatti e non vissuti e lui risponde come può: un po’ tenta di interpretare, un pò dà risposte concrete, pentendosene subito dopo e infine, in preda alla confusione fra il suo transfert nei confronti dei pazienti e il loro transfert su di lui, torna frettolosamente dalla dottoressa che lo aveva supervisionato in passato. La confusione emozionale è sostenuta dall’abolizione delle elementari regole del setting: i pazienti vagano per lo studio in preda ad una sorta di agitazione incontenibile, entrano nel bagno della famiglia dell’analista e addirittura, come nel caso dell’adolescente arrivata alla seduta zuppa di pioggia, vengono invitati ad indossare i vestiti asciutti della figlia del dottore. Tutti (analista, pazienti e supervisore) si danno del tu e si chiamano per nome e l’analista racconta ai suoi pazienti i fatti suoi cercando di trovare un modo per ridurne le pretese irrealistiche ma invitandoli, invece, a farlo diventare oggetto delle loro interpretazioni, in un capovolgimento totale dei ruoli. Né mettono ordine le sedute di supervisione che sembrano in preda ad una sorta di effetto minestrone. Non si capisce se il dottor Mari vuole aiuto per capire la sua complicata relazione con i pazienti, oppure vuole parlare dei suoi problemi personali - in particolare, della burrascosa relazione con la moglie che lo tradisce - in una sorta di prolungamento della propria analisi personale. Nessuno dei due interlocutori ha chiaro quale siano i livelli in gioco e come possano essere nominati, distinti e interrelati. Pare di capire che l’analista voglia fare una seduta terapeutica senza riconoscerlo e quindi attacca la sua supervisora definendola intrusiva, sottolineando il bisogno di lei di affetto e considerazione per lenire la perdita dolorosa del marito; mentre sembra che la supervisora in pensione proponga a Mari una seduta terapeutica, che lui non le ha richiesto esplicitamente, piuttosto che limitarsi a segnalare alcuni problemi controtrasferali del suo collega e  a rimandarlo eventualmente in analisi. Anche in questo caso, lo scontro sul potere (chi sei tu? il mio analista o il mio paziente, il supervisore o il supervisionato, ecc.) sembra in primo piano rispetto all’esigenza di definire e risolvere con competenza i problemi in campo. Cosa capiranno gli spettatori, nostri potenziali pazienti, che assistono a questo caos emozionale? Che effetto avranno questi sceneggiati sul cambiamento della domanda di psicoterapia?





Emilio Masina

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